
Avv. Giuseppe CAPONE
Decreto Cura Italia: requisizioni in uso o in proprietà, contratti e tutela giurisdizionale
Il periodo di emergenza giustifica anche l’applicazione, a determinate condizioni e per un tempo limitato, del Codice dell’Ordinamento Militare e di alcuni istituti in esso contenuti come la requisizione di beni mobili e immobili. Oltre alle questioni di carattere sostanziale si pongono anche questioni di carattere processuale che si risolvono in entrambi i casi in giustificate limitazioni dei diritti.
Il periodo di emergenza che il Paese sta vivendo ha portato il legislatore a dover adottare misure particolarmente importanti al fine di arginare la diffusione del virus.
Gli interventi, partiti ormai dalla dichiarazione dello stato di emergenza internazionale del 31.01.2020, pronunziata in pari data con la delibera del Consiglio dei Ministri (G.U. n. 26 01.02.2020), si sono succeduti nel corso di queste ultime settimane e sono sfociati nel noto Decreto Legge 17 marzo 2020, n. 18 c.d. “Cura Italia” all’interno del quale sono state previste numerose misure tese a supportare il sistema sanitario, giudiziario, economico, lavorativo, sociale del Paese in questo periodo di gestione dell’attuale fase particolarmente complessa.
A questo proposito, merita una particolare menzione l’art. 6, rubricato “Requisizioni in uso o in proprietà”, che consente al Capo del Dipartimento della protezione civile di disporre la requisizione in uso o in proprietà, da ogni soggetto pubblico o privato, di presidi sanitari e medico-chirurgici, nonché di beni mobili di qualsiasi genere.
L’ablazione è soggetta ad un presupposto funzionale, nel senso che può essere impiegata per fronteggiare l’attuale emergenza sanitaria, anche per assicurare il rifornimento di strutture e di equipaggiamenti alle aziende sanitarie o ospedaliere ubicate sul territorio nazionale, nonché per implementare il numero di posti letto specializzati nei reparti di ricovero dei pazienti affetti da patologie derivanti dal contagio virale, nonché ad un limite di durata, potendo protrarsi per un periodo non superiore a sei mesi (suscettibile, però, di essere differito sino all’esaurimento dello stato di emergenza, ad oggi fissato al 31 agosto 2020).
La requisizione, nel nostro ordinamento, è prevista, al vertice del sistema delle fonti, dall’art. 42, comma 3, Cost., che, nel disciplinare la più ampia fattispecie dell’espropriazione, la condiziona alla ricorrenza di motivi di interesse generali, alla promulgazione di una legge o atto avente forza di legge che la preveda ed al riconoscimento, in favore del titolare del diritto, di un’indennità, che, secondo l’insegnamento proveniente dalla Corte Costituzionale, deve essere serio, congruo, adeguato e non meramente simbolico (sentenze n. 138 del 6 dicembre 1977; n. 58 del 6 marzo 1974; n. 63 del 28 aprile 1970; n. 115 dell’8 luglio 1969; n. 22 del 9 aprile 1965; n. 91 del 18 giugno 1963).
Il diritto comune, invece, si occupa (invero marginalmente) della questione all’art. 835c.c., il quale, dopo aver stabilito che “quando ricorrono gravi e urgenti necessità pubbliche, militari o civili, può essere disposta la requisizione dei beni mobili o immobili. Al proprietario è dovuta una giusta indennità”, al secondo aggiunge che “le norme relative alle requisizioni sono determinate da leggi speciali”.
La norma privatistica, quantomeno ad un esame letterale, sembrerebbe garantire il proprietario in misura persino più accentuata della disposizione costituzionale (cronologicamente posteriore), poiché pone i requisiti della gravità e dell’urgenza quali presupposti imprescindibili per la compressione del diritto dominicale.
Con tutta verosimiglianza, ciò è dipeso dalla diversità fra i valori etico-politici espressi dalla Costituzione rispetto al Codice Civile con riferimento al bilanciamento fra diritti individuali ed aspirazioni della collettività: se per questo l’utilità sociale segna unicamente il limite estrinseco della proprietà privata, per quella ne costituisce addirittura la funzione intrinseca, ovverosia il fine che deve necessariamente contribuire ad attuare.
Tornando al Decreto “Cura Italia”, ad un’analisi di primissima approssimazione, emergono talune perplessità nella lettura dell’art. 6, comma 9, che così dispone: “in ogni caso di contestazione, anche in sede giurisdizionale, non può essere sospesa l’esecutorietà dei provvedimenti di requisizione di cui al presente articolo, come previsto dall’art. 458 del D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 66”, che contiene il “Codice dell’Ordinamento Militare”.
Tale rinvio è spiegato dalla naturale propensione del predetto apparato normativo a regolare misure emergenziali e a giustificare, in presenza di tali eccezionali circostanze, la limitazione dei normali diritti della persona e del cittadino: non è un caso, al riguardo, che il codice militare sancisca l’operatività della requisizione in caso di guerra ovvero, appunto, di grave crisi internazionale (art. 315, comma 2°).
Se l’evocazione del codice militare, astrattamente considerata, appare comprensibile e condivisibile, non altrettanto rassicurante è il riferimento all’art. 458 di tale compendio normativo, richiamato allo scopo di disciplinare i ricorsi giurisdizionali e, nella sostanza, per escludere che possa essere cautelarmente sospesa l’esecuzione del provvedimento amministrativo di requisizione.
L’art. 458 C.O.M., infatti, è inserito all’epilogo di un titolo dedicato alla requisizione di una serie di beni per la locomozione (cavalli, muli ed altri veicoli da soma, veicolo ordinari a trazione animale, veicoli a motore a trazione meccanica, biciclette d’ogni sorta, natanti d’ogni specie) che, con tutta verosimiglianza, non serviranno all’ente pubblico per combattere l’odierna epidemia, la quale, per ovvie ragioni, esigerà la temporanea apprensione di attrezzature sanitarie, come presidi ospedalieri, equipaggiamenti medici, strumenti chirurgici e, comunque, gli oggetti necessari per l’esecuzione di diagnosi, cure e terapie.
Atteso che le norme sulla requisizione sono di stretta esegesi e non sono suscettibili, pertanto, di rimaneggiamenti interpretativi in sede giudiziale, sembrerebbe che il combinato disposto dell’art. 6, 9° comma, del Decreto “Cura Italia” e dell’art. 458 C.O.M. escluda il potere/dovere del giudice di sospendere cautelativamente i provvedimenti di requisizione soltanto per l’ipotesi in cui essi incidano sui beni per la locazione, confermandolo, invece, per tutti i casi in cui riguardino altri beni, fra i quali, appunto, gli strumenti sanitari.
La paradossale conseguenza interpretativa potrebbe essere prevenuta in sede di conversione in legge del Decreto “Cura Italia”, estendendo il richiamo all’art. 397, 2° comma, C.O.M., contenuto nella sesta sezione, che detta disposizioni comuni in materia di requisizione di beni mobili e immobili di cui all’art. 371 C.O.M.
In ogni caso, la trattazione dell’istanza di inibitoria è riservata dall’art. 85 del decreto “Cura Italia” al giudice amministrativo con decreto pronunziato dal Presidente del Tribunale competente ovvero da altro giudice da lui delegato, mentre la trattazione collegiale dovrà essere fissata ad una data immediatamente successiva al 15 aprile 2020.
Giova altresì sottolineare che la requisizione attribuisce al proprietario il diritto ad un indennizzo, che sarà pari, in caso di requisizione in proprietà, all’interno valore del bene e, in ipotesi di requisizione in uso, ad un quarantaduesimo di detto valore per ciascuno mese di durata del provvedimento.
La requisizione in uso si converte automaticamente in requisizione in proprietà qualora, entro il termine di sei mesi dall’apprensione del bene ad opera della pubblica amministrativa, esso non sia restituito al proprietario nel luogo in cui è stato prelevato e nello stato in cui si trovava precedentemente, salvo che l’interessato non acconsenta alla proroga del termine.
In ipotesi di conversione della requisizione in uso in requisizione in proprietà, a prescindere dalla causa che l’ha determinata, il proprietario, ovviamente, avrà diritto ad una maggiorazione dell’indennizzo, pari alla differenza fra quella prevista per il caso di espropriazione e quella già riscossa per il mancato uso.
Da ultimo, occorre spendere qualche parola sulle sorti dei contratti che abbiano ad oggetto il bene requisito, ad esempio il leasing contratto per la sua acquisizione.
Visto che, con riferimento a tale questione, non si verte in ipotesi di definizione dei presupposti legittimanti la requisizione (da interpretarsi in chiave letterale), ma di determinazione delle conseguenze giuridiche che ne derivano, non è così azzardato immaginare che possa applicarsi in via analogica l’art. 398 C.O.M., il cui contenuto è bene riportare per esteso:
“L’ordine di requisizione risolve di diritto qualsiasi contratto che ha per oggetto il bene requisito, se l’esecuzione del contratto non è compatibile con l’esecuzione dell'ordine di requisizione. L’ordine di requisizione libera di diritto il proprietario da qualsiasi obbligazione nei confronti di terzi. La risoluzione dei contratti non dà luogo a rimborso di spese né a risarcimento di danni a favore di chiunque.
Se la requisizione cessa prima della scadenza convenuta o prorogata del contratto, il contraente che aveva l’uso o il godimento del bene requisito ha diritto a riavere tale uso o godimento, fino al termine convenuto o prorogato del contratto, alle stesse condizioni precedenti, salve le modificazioni legali eventualmente intervenute”.
Qualora il conduttore finanziario sia in bonis rispetto al pagamento al pagamento delle rate esposte nel piano di ammortamento, non sembrerebbero emergere difficoltà interpretative: in caso di requisizione in proprietà, il bene viene sottratto al locatore finanziario, il quale potrà pretendere l’indennizzo dalla pubblica amministrazione, da commisurarsi al valore residuo del bene, mentre nulla potrà rivendicare dal conduttore finanziario; in ipotesi di requisizione in uso, il conduttore finanziario viene privato del diritto di godimento sull’oggetto e riceverà un indennizzo che impiegherà per pagare le rate (qualora esso non fosse sufficiente, egli non sarà tenuto al risarcimento del danno, ossia al pagamento degli interessi, visto che l’inadempimento e/o il ritardo è dipeso da causa di forza maggiore ex art. 1218 c.c.).
Delle problematiche potrebbero manifestarsi, invece, qualora il conduttore finanziario, al momento della requisizione in proprietà, si trovi in una situazione di morosità: in questo occorre domandarsi se l’estinzione del contratto produca o meno la liberazione del conduttore finanziario dal dovere di corrispondere gli interessi moratori già accumulati.
La risposta parrebbe negativa in virtù del principio di irretroattività degli effetti prodotti dalla risoluzione del contratto a prestazioni continuative e/o periodiche, stabilita dall’art. 1458 c.c. e non derogata, nella specie, dalla legislazione speciale.
Da ultimo, è ragionevole interrogarsi su quale sia il soggetto legittimato a concedere la proroga della requisizione in uso ovvero ad esigerne la trasformazione in requisizione in proprietà, con ogni conseguenza in punto di indennizzo, laddove il termine semestrale per la restituzione del bene nello status quo ante non sia rispettato. Al riguardo, sembrerebbe che il proprietario non possa essere privato di tale diritto, visto che esso risulta estraneo al ventaglio di facoltà di godimento che il locatore trasferisce provvisoriamente al conduttore.
Ogni valutazione, però, è resa estremamente incerta e problematica dall’eccezionalità del fenomeno, con cui il giurista, in epoca repubblicana, non si è mai confrontato e che è costretto ad affrontare in difetto di precedenti giurisprudenziali che ne sappiano indirizzare le soluzioni interpretative.
Coronavirus e GDPR: quali gli adempimenti per la raccolta dei dati?
In data 2 marzo 2020, il Garante per la Privacy si è nuovamente pronunciato in merito al tema legato al Coronavirus, offrendo ulteriori e più specifici chiarimenti in merito alle misure che soggetti pubblici e privati devono adottare relativamente al trattamento dei dati personali in conformità alle disposizioni di cui al GDPR.
Il virus Covid-19, meglio noto come Coronavirus, ha impattato e continua a impattare negativamente sulle nostre vite sotto diversi profili e, per quanto qui rileva, anche in relazione al trattamento dei dati personali. Già in data 31 gennaio 2020 il Consiglio dei Ministri si era riunito per accertare e dichiarare lo stato di emergenza sul territorio nazionale. Nell’ambito di detto stato di emergenza, il Capo Dipartimento della Protezione Civile aveva ritenuto opportuno rivolgersi al Garante della Privacy al fine di ottenere un parere favorevole in merito alla bozza di ordinanza relativa al trattamento dei dati personali sanitari, relativi alla salute, ai sensi di cui all’art. 9 oltreché i dati di cui all’art. 10 del GDPR.
Con riferimento a detta richiesta il Garante si era pronunciato favorevolmente, in particolare sostenendo che:
a) i soggetti di cui all’articolo 1 della stessa nonché quelli operanti nel Servizio nazionale di Protezione civile (artt. 4 e 13 del D. Lgs. 2 gennaio 2018, n. 1), possono “effettuare trattamenti, ivi compresa la comunicazione tra loro, di dati personali anche relativi agli artt. 9 e 10 del GDPR, che risultino necessari per l’espletamento della funzione di protezione civile al ricorrere dei casi di cui agli artt. 23, comma 1, e 24, comma 1, del D. Lgs. 2 gennaio 2018, n. 1”, con una scadenza fissata al 30 giugno 2020; |
b) i dati personali raccolti possono essere comunicati a soggetti pubblici e privati diversi da quelli di cui alla lettera a), nonché è ammissibile la diffusione dei dati personali diversi da quelli di cui agli artt. 9-10, laddove la comunicazione e diffusione siano necessarie ai fini dello svolgimento delle attività previste dall’ordinanza stessa; |
c) il trattamento dei dati personali deve avvenire in conformità ai principi sanciti ai sensi di cui all’art. 5 GDPR restando inteso che, attesa l’emergenza, occorre “contemperare la funzione di soccorso con quella afferente la salvaguardia della riservatezza degli interessati”. |
In data 2 marzo 2020, il Garante per la Privacy si è nuovamente pronunciato in merito al tema legato al Coronavirus, offrendo ulteriori e più specifici chiarimenti in merito alle misure che soggetti pubblici e privati devono adottare relativamente al trattamento dei dati personali in conformità alle disposizioni di cui al GDPR.
Il Garante, infatti, ha dichiarato di aver ricevuto numerosi quesiti posti da soggetti pubblici e privati in merito alla possibilità di raccogliere “all’atto della registrazione di visitatori e utenti di informazioni circa la presenza di sintomi da Coronavirus e notizie sugli ultimi spostamenti, come misura preventiva. Analogamente, datori di lavoro pubblici e privati hanno chiesto al Garante la possibilità di acquisire una “autodichiarazione” da parte dei dipendenti in ordine all’assenza di sintomi influenzali, e vicende relative alla sfera privata”.
In merito a dette richieste, il Garante ha ribadito quanto già in precedenza affermato. In particolare, l’Autorità ha invitato i soggetti titolari al trattamento dei dati, siano essi pubblici o privati, a attenersi scrupolosamente alle indicazioni fornite dal Ministero della Salute e dalle istituzioni competenti per la prevenzione della diffusione del Virus, diffidandoli dall’assumere qualsiasi iniziativa autonoma relativa alla raccolta di dati personali, anche sanitari relativi alla salute, di utenti o lavoratori, che non sia normativamente prevista o disposta dagli organi competenti.
Infatti, ciò che rileva è certamente l’obbligatoria conformità della raccolta dei dati ai sensi di cui all’art. 5, che stabilisce e determina i principi generali cui necessariamente occorre conformarsi nell’ambito del trattamento dei dati personali. Nello specifico, infatti, il Garante ha rilevato che “l’accertamento e la raccolta di informazioni relative ai sintomi ... e alle informazioni sui recenti spostamenti di ogni individuo spettano agli operatori sanitari e al sistema attivato dalla protezione civile, che sono gli organi deputati a garantire il rispetto delle regole di sanità pubblica recentemente adottate”. Da ciò ne deriva che, solo gli organi qualificati, competenti e a ciò preposti, possono procedere al trattamento di tali categorie particolari di dati, al fine di rendere, pertanto, illegittimo ogni trattamento eventualmente effettuato da soggetti pubblici e/o privati.
È, quindi, vietato ai datori di lavoro, pubblici e privati raccogliere in modo sistematico e generalizzato, anche attraverso specifiche richieste ai singoli o mediante loro autodichiarazioni (non spontanee, invece ammesse). I datori di lavoro devono, pertanto, astenersi dall’adottare condotte ispettive e di indagine preventiva. Una siffatta attività, infatti, oltre a non essere conforme ai principi di cui all’art. 5 (liceità, minimizzazione dei dati, necessarietà, etc.), non è conforme alle misure eccezionali che rientrano nella sfera di competenza delle autorità pubbliche preposte.
In casi particolari di necessità e urgenza, inoltre, le stesse autorità pubbliche, anche di concerto con l’Autorità Garante, possono adottare misure più restrittive ovvero introdurre disposizioni più specifiche affinché il GDPR possa correttamente trovare applicazione. Nel caso in esame, infatti, per ben due volte l’intervento del Garante è stato necessario per offrire delucidazioni e maggiore chiarezza interpretativa del Regolamento UE 679/2016.
Ciò che ci si auspica, oltre ai chiarimenti già offerti dal Garante relativamente alla raccolta e trattamento dei dati da parte dei datori di lavoro, è una maggiore sensibilità afferente alla necessaria salvaguardia della riservatezza dei soggetti interessati, come suesposto, in conformità dell’art. 5 da parte degli organi/enti di pubblica informazione (quotidiani, media, telegiornali).
Non pare revocabile in dubbio, infatti, che si è assistito a condotte prive delle necessarie cautele in merito al bilanciamento tra diritto di cronaca e la tutela del diritto fondamentale alla riservatezza di eventuali soggetti colpiti malauguratamente dal Virus.
A parere di chi scrive, infatti, l’indicazione dei nominativi (nome e cognome) nonché di ogni altro dato (sesso, età, attività lavorativa, interessi di qualsivoglia natura) non rilevano ai fini di pubblica informazione e di cronaca, di cui all’art. 21 Cost. quale libertà di manifestazione del pensiero.
Si ritiene, infatti, che quale requisito e presupposto minimo, sarebbe stato opportuno procedere alla pseudonimizzazione dei dati personali degli interessati, in conformità con quanto disposto ai sensi di cui all’art. 5 GDPR al fine di garantire il diritto alla riservatezza, quale estrinsecazione di un altro principio fondamentale della nostra Carta Costituzionale, rinvenibile estensivamente ai sensi di cui all’art. 15.
Nel caso di specie si ritiene non vi sia stato un corretto bilanciamento tra il diritto alla riservatezza e il diritto di cronaca. Quantomeno, sarebbe stato opportuno adottare le cautele minime riconosciute dall’art. 5 GDPR, in virtù del quale (oltre alla citata pseuodonimizzazione) viene in risalto il principio di essenzialità del dato, che certamente rappresenta un limite al diritto di cronaca.
Certamente vi saranno futuri interventi da parte del Garante in merito.
Rc Auto: cosa cambia con il Milleproroghe 2020
Si analizza, in questo articolo, la disciplina introdotta in tema di attribuzione di classi di merito RC auto dai commi 4 ter dell’art. 12, D.L. 30 dicembre 2019, n. 162 convertito con L. 28 febbraio 2020, n. 8.
Il comma 4 ter dell’art. 12, D.L. 30 dicembre 2019, n. 162 (convertito con L. 28 febbraio 2020, n. 8) inserisce un nuovo comma 4 ter.2 all’art. 134 del Codice delle assicurazioni private attuato con il D.Lgs. n. 209/2005 che disciplina l’attestato di rischio e l’attribuzione della classe di merito nell’ambito dell’assicurazione Responsabilità Civile autoveicoli, con particolare riferimento a quella familiare, disciplinata dall’art. 134, comma 4 bis dello stesso Codice delle assicurazioni private.
L’art. 134, comma 4 bis del Codice assicurazioni private - per effetto delle modifiche apportate dall’art. 55 bis del d.l. 26 ottobre 2019, n. 124 - stabilisce che a) in tutti i casi di stipula e b) in tutti i casi di rinnovo di un contratto di assicurazione di un mezzo di trasporto, anche di diversa tipologia, ove si verifichi un sinistro di cui è responsabile - in via esclusiva o principale - un conducente collocato nella classe di merito più favorevole per il veicolo di diversa tipologia, ai sensi delle disposizioni sulla RC auto familiare, e che abbia comportato il pagamento di un indennizzo complessivamente superiore a 5.000 euro, le imprese assicurative, alla prima scadenza successiva del contratto, possono assegnare, per il solo veicolo di diversa tipologia coinvolto nel sinistro, una classe di merito superiore fino a cinque unità rispetto ai criteri indicati dall'Ivass.
Le disposizioni normative di nuovo conio si applicano unicamente ai soggetti beneficiari dell'assegnazione della classe di merito più favorevole per il solo veicolo di diversa tipologia, ai sensi delle disposizioni di cui al comma 4 bis come modificato dal D.L. n. 124/2019.
Il comma 4 quater dell’art. 12 dispone che entro il 30 ottobre 2020 l'Ivass trasmetta una relazione sull'applicazione e sugli effetti delle nuove norme al Ministero dello sviluppo economico, al Ministero dell'economia e delle finanze e alle Commissioni parlamentari competenti.
La nuova disciplina della RC autoveicoli consente quindi di differenziare le conseguenze assicurative derivanti dai sinistri di cui sono responsabili i conducenti dei diversi veicoli che beneficiano della disciplina della RC auto familiare.
Criticità
La nuova disposizione normativa prevede come limite per fare scattare la sanzione del “malus” soltanto il pagamento di un indennizzo complessivamente superiore a cinquemila euro, facendo chiaramente intendere il riferimento ad un singolo sinistro.
Quid juris se lo stesso conducente per cui trova applicazione la disposizione sul malus commette invece più sinistri ciascuno di importo inferiore a cinquemila euro, ma complessivamente, tenendo conto del numero di sinistri, di importo superiore al limite previsto ex lege?
A ciò aggiungasi che la norma in esame si riferisce alla classe di merito riferita ai veicoli già assicurati non anche in uso esclusivo ai componenti del nucleo familiare.
Quid juris se il sinistro viene commesso da un soggetto diverso da quello assicurato?
La nuova disciplina si riferisce espressamente al solo conducente collocato nella classe di merito più favorevole per il veicolo di diversa tipologia che abbia comportato il pagamento di un indennizzo complessivamente superiore a cinquemila euro, lasciando così chiaramente intendere che la persona del conducente coincida con quella dell’assicurato.
E se invece il veicolo per una qualsiasi ragione viene guidato da un altro soggetto diverso dal conducente collocato nella classe di merito più favorevole per il veicolo di diversa tipologia che non fa parte del nucleo familiare, il quale, occasionalmente commette il sinistro, cosa succede, si applicherà comunque il malus?
Stando alla norma di chiusura, dovrebbe pervenirsi ad una soluzione negativa, nel senso che poiché le suddette disposizioni si applicano unicamente ai soggetti beneficiari dell'assegnazione della classe di merito più favorevole per il solo veicolo di diversa tipologia, ai sensi delle disposizioni di cui al comma 4 bis come modificato dal D.L. n. 124/2020, appare evidente che esulano dal perimetro di applicazione della nuova disciplina i sinistri commessi da un conducente diverso sebbene alla guida del veicolo appartenente ad assicurato rientrante nel nucleo familiare.
Pertanto, appare evidente come a scongiurare l’applicazione del malus previsto dalla suddetta disposizione normativa, aggirando la norma, basterà che il sinistro risulti essere stato commesso da un soggetto diverso dal conducente collocato nella classe di merito più favorevole per il veicolo di diversa tipologia - a mero titolo di esempio, si pensi a veicoli intestati a singoli componenti dello stesso nucleo familiare usati da personale dipendente di un’impresa familiare - ciò che a ben vedere, potrebbe comportare un consistente e generalizzato aumento delle tariffe r.c. auto da parte delle Compagnie assicuratrici al fine di “spalmare” sul mercato dell’utenza l’aumento dei costi per i sinistri rc auto.
Ove dovesse verificarsi tale ipotesi, presumibilmente, potrebbe conseguire un’ulteriore criticità, dovuta al fatto che se le tariffe dovessero essere riviste al rialzo, davvero esisterebbero i risparmi di spesa ipotizzati con riferimento agli assicurati dei diversi veicoli che beneficiano della disciplina della RC auto familiare?
Ex casa coniugale: l’IMU deve essere pagata dall’assegnatario
La pronuncia del 10 gennaio 2020 della Commissione Tributaria Regionale di Bologna affronta il caso della destinazione a dimora famigliare, tramite concessione di diritto di comodato a un coniuge al fine di utilizzarlo per tal scopo, da parte di un terzo estraneo al rapporto di coniugio. All’atto della separazione, tal bene viene assegnato a uno degli ex-coniugi; nondimeno il Comune richiede l’IMU anche al proprietario del bene (la madre di uno degli ex coniugi) che avrebbe mantenuto (anch’ella) la soggettività passiva. La CTR va di contrario avviso, sostenendo che la traslazione della soggettività passiva operata dalla disposizione del 2012 identifica uno e un solo soggetto passivo, nella persona dell’assegnatario del bene.
La questione affrontata dalla pronuncia in commento riguarda l’applicazione dell’art. 4 comma 12 quinquies D.L. n. 16/2012 conv. in L. n. 44/2012: la disposizione normativa in questione recita che “ai soli fini dell’applicazione dell'imposta municipale… l’assegnazione della casa coniugale al coniuge, disposta a seguito di provvedimento di separazione legale, annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, si intende in ogni caso effettuata a titolo di diritto di abitazione”. Nel caso concreto, la CTP rigettava il ricorso del contribuente, argomentando che la norma in questione, avendo natura eccezionale e di deroga ai principi generali, deve essere interpretata in modo letterale e non estensivo; e quindi, in base al suo dettato letterale, essa attribuiva la soggettività passiva IMU unicamente al coniuge assegnatario dell’immobile a seguito di separazione, laddove sia l’altro coniuge ad essere proprietario o comproprietario; ma laddove, come nel caso che qui occupa, il coniuge non assegnatario non sia titolare di un diritto reale sull’immobile, non può essere esclusa la soggettività passiva IMU anche del proprietario che sia comodante e soggetto terzo rispetto alla separazione.
Nella fattispecie, la madre di uno dei coniugi aveva concesso in comodato gratuito al figlio un immobile allo scopo di destinarlo ad abitazione coniugale; l’immobile era stato effettivamente destinato ad abitazione coniugale sino alla separazione degli stessi. In sede di giudizio di separazione, lo stesso era stato dal Tribunale assegnato alla moglie, che aveva iniziato a corrispondere al Comune di Forlì le somme richieste a titolo di IMU. In seguito, il Comune ha però richiesto il pagamento dell’IMU anche alla proprietaria del bene, che impugnava gli avvisi di accertamento sostenendo proprio ex art. 4 comma 12 quinquies D.L. n. 16/2012, che il solo soggetto passivo ai fini IMU era da ritenersi il coniuge assegnatario dell’immobile, indipendentemente da ogni considerazione in ordine al fatto che proprietario sia l’altro coniuge od un terzo estraneo alla relazione di coniugio.
La CTR, in riforma della pronuncia di primo grado, ritiene che il legislatore abbia specificamente disciplinato il presupposto impositivo nell’ipotesi di scioglimento del vincolo coniugale, prevedendo che, ai soli fini dell’applicazione dell’imposta municipale sugli immobili, è soggetto passivo del tributo il coniuge a cui viene assegnata la casa coniugale con provvedimento giurisdizionale.
Risulta quindi contraddetto l’assunto del primo giudice, fondato essenzialmente sul solo tenore letterale della norma, che pare attribuire la soggettività passiva unicamente al coniuge assegnatario solo laddove proprietario o comproprietario fosse l’altro coniuge. Ritiene infatti la Commissione Regionale che detta limitazione in primo luogo non possa trarsi “dalla piana analisi esegetica del testo normativo”.
Secondariamente, il giudice dell’appello nota anche come “non può essere condiviso neppure il successivo snodo argomentativo, e cioè che la norma non può essere oggetto di un’interpretazione estensiva in quanto avente natura eccezionale, essendo tale conclusione risultata espressamente disattesa dalla recente pronuncia di Cass. Civ. n. 11416/2019”.
E’ qui richiamato in motivazione quell’argomento della Corte di Legittimità secondo il quale “il presupposto per l’applicazione dell’IMU è il medesimo di quello previsto dall’ICI”, id est “il possesso di immobili di cui all’articolo 2 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504”; e che è “necessario che il rapporto che lega il soggetto all'immobile sia qualificato, riconducibile, quindi, alla proprietà, all’usufrutto o ad altro diritto reale di godimento, o ad un’altra situazione giuridica specificatamente stabilita dalla legge come nel caso di locazione finanziarie o concessione di beni demaniali”.
Ne deriva che “il legislatore ha specificamente disciplinato il presupposto impositivo nell’ipotesi di scioglimento del vincolo matrimoniale, prevedendo che, ai soli fini dell’applicazione dell’imposta municipale sugli immobili, è soggetto passivo del tributo il coniuge a cui viene assegnata la casa coniugale con provvedimento giurisdizionale”; ed in tal modo, “il legislatore ha sancito la traslazione della soggettività passiva dell’IMU dal proprietario all’assegnatario dell’alloggio, cosicché l’imposizione ricade in capo all’utilizzatore”.
Da tale precisazione della Corte di cassazione deriva, secondo la sentenza qui annotata, che non possono desumersi “limiti operativi della norma nel caso di assegnazione a uno dei coniugi a seguito di separazione legale”, e quindi non può sostenersi che essa s’applica solo alla situazione in cui comproprietario o proprietario sia il coniuge non assegnatario; anzi la norma deve essere “interpretata estensivamente”, includendo nel relativo ambito di applicazione anche le ipotesi riconducibili ad una eadem ratio, e per tali motivi trova applicazione, ad esempio, anche alle famiglie di fatto.
In forza di tal interpretazione, quindi, secondo la Corte di Legittimità, il convivente "more uxorio", al quale a seguito della cessazione del rapporto viene assegnato l'immobile adibito a casa familiare di proprietà dell'altro convivente, è soggetto passivo di imposta ex art. 4, comma 12-quinquies, del d.l. n. 16 del 2012, conv. in l. n. 44 del 2012, che, non disciplinando un'ipotesi di agevolazione o di esenzione, può essere interpretato estensivamente includendo nel relativo ambito di applicazione, per "eadem ratio", anche per l’appunto i rapporti di convivenza.
Esdebitazione
Secondo la sentenza del Tribunale di Genova del 3 febbraio 2020, l’organismo di composizione della crisi, quantunque legato da uno stretto rapporto fiduciario con il debitore istante, a beneficio del quale è tenuto a svolgere una prestazione di carattere latamente consulenziale, è chiamato a censurare esplicitamente come illegittime o non attuabili delle proposte che non soddisfano i requisiti legali ovvero non sono sostenibili economicamente.
La sentenza n. 273/2020 emessa dal Tribunale di Genova in data 3 febbraio 2020, occupandosi, negandola nel caso specifico, di una presunta responsabilità professionale di un commercialista investito del ruolo di compositore della crisi, offre degli interessanti spunti sull’interpretazione della Legge 27 gennaio 2012, n. 3 e, in modo particolari, su taluni degli interrogativi che essa solleva.
In particolare ci soffermiamo su alcuni chiarimenti forniti dal Tribunale riguardo gli aspetti principali della procedura di sovraindebitamento sui processi esecutivi pendenti. Sul punto, si è evidenziato che:
· l’inibitoria è un provvedimento di competenza esclusiva del giudice delegato, suscettibile di essere trasmesso al giudice dell’esecuzione soltanto a scopi informativi; |
· qualora il giudice delegato disponga la sospensione del processo esecutivo, il giudice dell’esecuzione non può che prenderne atto ed è soltanto legittimato ad autorizzare il compimento degli atti urgenti, ai sensi dell’art. 626 c.p.c.; |
· nel caso sia stato proposto un accordo per la ristrutturazione del debito, il giudice delegato, nel fissare l’udienza per la verificazione del consenso, è tenuto (e, quindi, non semplicemente facoltizzato) a disporre la sospensione dei processi esecutivi in corso e a stabilire che non possano iniziarne di altri (art. 10, 2° comma, lett. c); |
· siffatto provvedimento, invece, non è affatto obbligatorio laddove l’istante presenti un piano del consumatore, nel qual caso l’eventuale sospensione non è obbligatoria, ma facoltativa, richiede una specifica iniziativa del debitore e, in ogni caso, non deve necessariamente investire tutti i pendenti processi esecutivi, ma può riguardare anche soltanto taluni di essi (art. 12-bis, 2° comma); |
· la ragione di codesta diversità di trattamento risiede nella circostanza che la ristrutturazione del debito, essendo un procedimento di natura smaccatamente consensuale, implica la raccolta di una certa quantità di consensi presso il ceto creditorio e, quindi, è opportuno che la situazione venga cristallizzata per consentire a ciascuno dei creditori di esprimersi sull’opportunità e sulla convenienza economica dell’offerta; |
· al contrario, il piano del consumatore, potendo essere imposto dal giudice ai creditori e, quindi, assumendo dei caratteri propriamente eteronomi ed autoritativi, esige la paralisi dei soli processi esecutivi che, in ragione delle loro specifiche peculiarità, siano idonei, se coltivati, a pregiudicare il proposito concordatario. |
Coronavirus: tra “obbligo” di smartworking e assenza ingiustificata dal luogo di lavoro
Il primo DPCM ha introdotto, all'articolo 3, l'applicazione automatica della modalità di lavoro agile (smart-working) anche in assenza di accordi individuali ma sempre nel rispetto della legge 22 maggio 2017 n.81, ad ogni rapporto di lavoro subordinato "nell'ambito di aree considerate a rischio e nelle situazioni di emergenza nazionale e locale". In aggiunta, il secondo DPCM, pubblicato in Gazzetta Ufficiale in data 25 febbraio 2020, ha poi esteso, all'articolo 2, l'ambito geografico di applicazione dello smart-working a sei regioni italiane, ed in particolare ad Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Piemonte, Veneto e Liguria ovvero quelle che sarebbero le più colpite dal virus
Tale modalità di lavoro agile sarà applicabile, in via automatica, fino al 15 marzo 2020, e secondo una comunicazione del 24 febbraio 2020 del Ministero del Lavoro, l'accordo individuale sarebbe sostituito da un'autocertifciazione, in cui viene attestato che lo smart-working si applica nei confronti un soggetto appartenente ad una delle aree a rischio.
Alla luce delle recenti disposizioni legislative, ci si chiede allora se nel caso in esame sussiste un obbligo a carico del datore di lavoro ad accordare lo smart-working in riferimento alle zone specificamente indicate dalla normativa oppure se abbia la facoltà di rifutarlo, laddove per esempio questo non sia applicabile per la tipologia di mansioni svolte dal dipendente. Per poter rispondere a questo quesito, i nuovi provvedimenti legislativi vanno sicuramente letti alla luce dell’articolo 2087 c.c. (che richiede al datore di adottare “le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”), nonché alle disposizioni del D.Lgs. 81/2008, che prevede in capo al datore di lavoro l’obbligo di tutela del lavoratore da rischi connessi al rapporto di lavoro, ivi incluso il rischio biologico .
In diverse occasioni, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che la responsabilità datoriale – ai sensi dell’articolo 2087 c.c. – va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge, o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento, nonché ancorata al presupposto teorico secondo cui il verificarsi dell'evento costituisce circostanza inequivocabilmente scaturita dal mancato uso di mezzi di prevenzione da parte del datore di lavoro (cfr. Cass. Civ. 6 novembre 2019, n. 28516).
Tuttavia, le misure emergenziali adottate in questo preciso momento – sia a livello nazionale sia a livello locale/regionale – rappresentano nuovi strumenti a disposizione di tutti i datori di lavoro, soprattutto quelli presenti o vicini alle zone interessate (e specificatamente richiamate da alcune disposizioni) e, pertanto, andrebbero adeguatamente favorite e rispettate, nei limiti - comunque – della tipologia di lavoro richiesto al dipendente e compatibilmente con le tecnologie adottate da ciascuna impresa. Inoltre, a nostro avviso, l’interpretazione dell’articolo 2087 c.c. non può essere dilatata fino a comprendervi ogni ipotesi di danno, semplicemente sull'assunto che il rischio non si sarebbe verificato in presenza di ulteriori accorgimenti. In ogni caso, il lavoratore che volesse dimostrare di aver contratto il coronavirus per essersi recato a lavoro (per non aver avuto la possibilità di lavorare da remoto), comunque avrebbe l’onere di provare di aver contratto la malattia a lavoro o sul tragitto da/per casa, il che appare davvero arduo, considerando i rischi di contagio a cui tutti sembrano essere esposti quotidianamente.
Un ulteriore aspetto – sempre connesso alle svariate casistiche che, in queste settimane, si possono presentare nella gestione dei rapporti di lavoro – riguarda la possibilità per il datore di lavoro di considerare come ingiustificata l’assenza del dipendente dal luogo di lavoro per il semplice timore di contrarre il virus (quindi senza aver contratto la malattia o essere stato posto in quarantena da ordini delle autorità).
A tal riguardo, un recente approfondimento della Fondazione Studi Consulenti del lavoro – diffuso in data 24 febbraio 2020 – ha chiarito, infatti, che in assenza di specifici ordini dell’autorità il fenomeno dell’epidemia non è sufficiente a giustificare – di per sé – la malattia. Tale comunicazione ha inoltre ricordato che – come noto – l’assenza ingiustificata dal luogo di lavoro, se reiterata, può giungere a comportare il licenziamento del dipendente.
Come ogni provvedimento disciplinare, il licenziamento per assenza ingiustificata deve essere proporzionato alla condotta del lavoratore e alla situazione concreta. Inoltre, è possibile che i contratti collettivi disciplinino il limite temporale entro cui l’assenza del dipendente sia tollerata, nonché i conseguenti provvedimenti disciplinari in caso di superamento del predetto limite.
Pertanto, qualora – per esempio – il dipendente si astenesse per più giorni dal lavoro sulla base del semplice timore di contrarre il virus, è lecito che il datore di lavoro valuti tale condotta e adotti i relativi provvedimenti, in conformità alle disposizioni di legge e del contratto collettivo eventualmente applicabile.
In ogni caso, data la particolarità della situazione, prima di prendere decisioni drastiche, è comunque consigliabile che ogni datore di lavoro valuti, in concreto, il singolo rapporto di lavoro (come, per esempio, il luogo di residenza, il numero di giorni di assenza, le condizioni fisiche e/o di salute, le eventuali motivazioni addotte dal dipendente, le mansioni svolte, ecc.) e consideri, di conseguenza, eventuali misure alternative – se applicabili – come per esempio l’aspettativa retribuita o, riprendendo quanto esposto sopra, le modalità di smart-working, messe al momento a disposizione dall’ordinamento.
PACE FISCALE. OK DEL SENATO. LE SCADENZE DA RICORDARE
PACE FISCALE. DEFINIZIONE AGEVOLATA LITI PENDENTI
- della metà del valore della controversia in caso di soccombenza dell'Amministrazione Finanziaria in primo grado;
- di un quinto dela valore della controversia in caso di soccombenza dell'Amministrazione Finanziaria nel giudizio di secondo grado.
ROTTAMAZIONE CARTELLE. SCADENZA DEL 7 DICEMBRE 2018
ROTTAMAZIONE TER. MODALITA' DI ADESIONE
PACE FISCALE. ATTENZIONE ALLE TASSE PRESCRITTE
DICHIARAZIONI DEI REDDITI SEMPRE CORREGGIBILI
AVVISO DI ACCERTAMENTO NULLO SENZA DELEGA
RITENUTE PREVIDENZIALI: rilevanza penale tra truffa e indebita compensazione
PACE FISCALE ANCHE PER LE CARTELLE SUPERIORI A 1000 EURO
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