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La pronuncia del 10 gennaio 2020 della Commissione Tributaria Regionale di Bologna affronta il caso della destinazione a dimora famigliare, tramite concessione di diritto di comodato a un coniuge al fine di utilizzarlo per tal scopo, da parte di un terzo estraneo al rapporto di coniugio. All’atto della separazione, tal bene viene assegnato a uno degli ex-coniugi; nondimeno il Comune richiede l’IMU anche al proprietario del bene (la madre di uno degli ex coniugi) che avrebbe mantenuto (anch’ella) la soggettività passiva. La CTR va di contrario avviso, sostenendo che la traslazione della soggettività passiva operata dalla disposizione del 2012 identifica uno e un solo soggetto passivo, nella persona dell’assegnatario del bene.

La questione affrontata dalla pronuncia in commento riguarda l’applicazione dell’art. 4 comma 12 quinquies D.L. n. 16/2012 conv. in L. n. 44/2012: la disposizione normativa in questione recita che “ai soli fini dell’applicazione dell'imposta municipale… l’assegnazione della casa coniugale al coniuge, disposta a seguito di provvedimento di separazione legale, annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, si intende in ogni caso effettuata a titolo di diritto di abitazione”. Nel caso concreto, la CTP rigettava il ricorso del contribuente, argomentando che la norma in questione, avendo natura eccezionale e di deroga ai principi generali, deve essere interpretata in modo letterale e non estensivo; e quindi, in base al suo dettato letterale, essa attribuiva la soggettività passiva IMU unicamente al coniuge assegnatario dell’immobile a seguito di separazione, laddove sia l’altro coniuge ad essere proprietario o comproprietario; ma laddove, come nel caso che qui occupa, il coniuge non assegnatario non sia titolare di un diritto reale sull’immobile, non può essere esclusa la soggettività passiva IMU anche del proprietario che sia comodante e soggetto terzo rispetto alla separazione.

Nella fattispecie, la madre di uno dei coniugi aveva concesso in comodato gratuito al figlio un immobile allo scopo di destinarlo ad abitazione coniugale; l’immobile era stato effettivamente destinato ad abitazione coniugale sino alla separazione degli stessi. In sede di giudizio di separazione, lo stesso era stato dal Tribunale assegnato alla moglie, che aveva iniziato a corrispondere al Comune di Forlì le somme richieste a titolo di IMU. In seguito, il Comune ha però richiesto il pagamento dell’IMU anche alla proprietaria del bene, che impugnava gli avvisi di accertamento sostenendo proprio ex art. 4 comma 12 quinquies D.L. n. 16/2012, che il solo soggetto passivo ai fini IMU era da ritenersi il coniuge assegnatario dell’immobile, indipendentemente da ogni considerazione in ordine al fatto che proprietario sia l’altro coniuge od un terzo estraneo alla relazione di coniugio.

La CTR, in riforma della pronuncia di primo grado, ritiene che il legislatore abbia specificamente disciplinato il presupposto impositivo nell’ipotesi di scioglimento del vincolo coniugale, prevedendo che, ai soli fini dell’applicazione dell’imposta municipale sugli immobili, è soggetto passivo del tributo il coniuge a cui viene assegnata la casa coniugale con provvedimento giurisdizionale.

Risulta quindi contraddetto l’assunto del primo giudice, fondato essenzialmente sul solo tenore letterale della norma, che pare attribuire la soggettività passiva unicamente al coniuge assegnatario solo laddove proprietario o comproprietario fosse l’altro coniuge. Ritiene infatti la Commissione Regionale che detta limitazione in primo luogo non possa trarsi “dalla piana analisi esegetica del testo normativo”.

Secondariamente, il giudice dell’appello nota anche come “non può essere condiviso neppure il successivo snodo argomentativo, e cioè che la norma non può essere oggetto di un’interpretazione estensiva in quanto avente natura eccezionale, essendo tale conclusione risultata espressamente disattesa dalla recente pronuncia di Cass. Civ. n. 11416/2019”.

E’ qui richiamato in motivazione quell’argomento della Corte di Legittimità secondo il quale “il presupposto per l’applicazione dell’IMU è il medesimo di quello previsto dall’ICI”, id est “il possesso di immobili di cui all’articolo 2 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504”; e che è “necessario che il rapporto che lega il soggetto all'immobile sia qualificato, riconducibile, quindi, alla proprietà, all’usufrutto o ad altro diritto reale di godimento, o ad un’altra situazione giuridica specificatamente stabilita dalla legge come nel caso di locazione finanziarie o concessione di beni demaniali”.

Ne deriva che “il legislatore ha specificamente disciplinato il presupposto impositivo nell’ipotesi di scioglimento del vincolo matrimoniale, prevedendo che, ai soli fini dell’applicazione dell’imposta municipale sugli immobili, è soggetto passivo del tributo il coniuge a cui viene assegnata la casa coniugale con provvedimento giurisdizionale”; ed in tal modo, “il legislatore ha sancito la traslazione della soggettività passiva dell’IMU dal proprietario all’assegnatario dell’alloggio, cosicché l’imposizione ricade in capo all’utilizzatore”.

Da tale precisazione della Corte di cassazione deriva, secondo la sentenza qui annotata, che non possono desumersi “limiti operativi della norma nel caso di assegnazione a uno dei coniugi a seguito di separazione legale”, e quindi non può sostenersi che essa s’applica solo alla situazione in cui comproprietario o proprietario sia il coniuge non assegnatario; anzi la norma deve essere “interpretata estensivamente”, includendo nel relativo ambito di applicazione anche le ipotesi riconducibili ad una eadem ratio, e per tali motivi trova applicazione, ad esempio, anche alle famiglie di fatto.

 

In forza di tal interpretazione, quindi, secondo la Corte di Legittimità, il convivente "more uxorio", al quale a seguito della cessazione del rapporto viene assegnato l'immobile adibito a casa familiare di proprietà dell'altro convivente, è soggetto passivo di imposta ex art. 4, comma 12-quinquies, del d.l. n. 16 del 2012, conv. in l. n. 44 del 2012, che, non disciplinando un'ipotesi di agevolazione o di esenzione, può essere interpretato estensivamente includendo nel relativo ambito di applicazione, per "eadem ratio", anche per l’appunto i rapporti di convivenza.

 

Mercoledì, 04 Marzo 2020 07:43

Esdebitazione

Scritto da

Secondo la sentenza del Tribunale di Genova del 3 febbraio 2020, l’organismo di composizione della crisi, quantunque legato da uno stretto rapporto fiduciario con il debitore istante, a beneficio del quale è tenuto a svolgere una prestazione di carattere latamente consulenziale, è chiamato a censurare esplicitamente come illegittime o non attuabili delle proposte che non soddisfano i requisiti legali ovvero non sono sostenibili economicamente.

La sentenza n. 273/2020 emessa dal Tribunale di Genova in data 3 febbraio 2020, occupandosi, negandola nel caso specifico, di una presunta responsabilità professionale di un commercialista investito del ruolo di compositore della crisi, offre degli interessanti spunti sull’interpretazione della Legge 27 gennaio 2012, n. 3 e, in modo particolari, su taluni degli interrogativi che essa solleva.

In particolare ci soffermiamo su alcuni chiarimenti forniti dal Tribunale riguardo gli aspetti principali della procedura di sovraindebitamento sui processi esecutivi pendenti. Sul punto, si è evidenziato che:

· l’inibitoria è un provvedimento di competenza esclusiva del giudice delegato, suscettibile di essere trasmesso al giudice dell’esecuzione soltanto a scopi informativi;

· qualora il giudice delegato disponga la sospensione del processo esecutivo, il giudice dell’esecuzione non può che prenderne atto ed è soltanto legittimato ad autorizzare il compimento degli atti urgenti, ai sensi dell’art. 626 c.p.c.;

· nel caso sia stato proposto un accordo per la ristrutturazione del debito, il giudice delegato, nel fissare l’udienza per la verificazione del consenso, è tenuto (e, quindi, non semplicemente facoltizzato) a disporre la sospensione dei processi esecutivi in corso e a stabilire che non possano iniziarne di altri (art. 10, 2° comma, lett. c);

· siffatto provvedimento, invece, non è affatto obbligatorio laddove l’istante presenti un piano del consumatore, nel qual caso l’eventuale sospensione non è obbligatoria, ma facoltativa, richiede una specifica iniziativa del debitore e, in ogni caso, non deve necessariamente investire tutti i pendenti processi esecutivi, ma può riguardare anche soltanto taluni di essi (art. 12-bis, 2° comma);

· la ragione di codesta diversità di trattamento risiede nella circostanza che la ristrutturazione del debito, essendo un procedimento di natura smaccatamente consensuale, implica la raccolta di una certa quantità di consensi presso il ceto creditorio e, quindi, è opportuno che la situazione venga cristallizzata per consentire a ciascuno dei creditori di esprimersi sull’opportunità e sulla convenienza economica dell’offerta;

· al contrario, il piano del consumatore, potendo essere imposto dal giudice ai creditori e, quindi, assumendo dei caratteri propriamente eteronomi ed autoritativi, esige la paralisi dei soli processi esecutivi che, in ragione delle loro specifiche peculiarità, siano idonei, se coltivati, a pregiudicare il proposito concordatario.

 

 

 

Il primo DPCM ha introdotto, all'articolo 3, l'applicazione automatica della modalità di lavoro agile (smart-working) anche in assenza di accordi individuali ma sempre nel rispetto della legge 22 maggio 2017 n.81, ad ogni rapporto di lavoro subordinato "nell'ambito di aree considerate a rischio e nelle situazioni di emergenza nazionale e locale". In aggiunta, il secondo DPCM, pubblicato in Gazzetta Ufficiale in data 25 febbraio 2020, ha poi esteso, all'articolo 2, l'ambito geografico di applicazione dello smart-working a sei regioni italiane, ed in particolare ad Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Piemonte, Veneto e Liguria ovvero quelle che sarebbero le più colpite dal virus 

Tale modalità di lavoro agile sarà applicabile, in via automatica, fino al 15 marzo 2020, e secondo una comunicazione del 24 febbraio 2020 del Ministero del Lavoro, l'accordo individuale sarebbe sostituito da un'autocertifciazione, in cui viene attestato che lo smart-working si applica nei confronti un soggetto appartenente ad una delle aree a rischio. 

Alla luce delle recenti disposizioni legislative, ci si chiede allora se nel caso in esame sussiste un obbligo a carico del datore di lavoro ad accordare lo smart-working in riferimento alle zone specificamente indicate dalla normativa oppure se abbia la facoltà di rifutarlo, laddove per esempio questo non sia applicabile per la tipologia di mansioni svolte dal dipendente. Per poter rispondere a questo quesito, i nuovi provvedimenti legislativi vanno sicuramente letti alla luce dell’articolo 2087 c.c. (che richiede al datore di adottare “le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”), nonché alle disposizioni del D.Lgs. 81/2008, che prevede in capo al datore di lavoro l’obbligo di tutela del lavoratore da rischi connessi al rapporto di lavoro, ivi incluso il rischio biologico . 

In diverse occasioni, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che la responsabilità datoriale – ai sensi dell’articolo 2087 c.c. – va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge, o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento, nonché ancorata al presupposto teorico secondo cui il verificarsi dell'evento costituisce circostanza inequivocabilmente scaturita dal mancato uso di mezzi di prevenzione da parte del datore di lavoro (cfr. Cass. Civ. 6 novembre 2019, n. 28516).

Tuttavia, le misure emergenziali adottate in questo preciso momento – sia a livello nazionale sia a livello locale/regionale – rappresentano nuovi strumenti a disposizione di tutti i datori di lavoro, soprattutto quelli presenti o vicini alle zone interessate (e specificatamente richiamate da alcune disposizioni) e, pertanto, andrebbero adeguatamente favorite e rispettate, nei limiti - comunque – della tipologia di lavoro richiesto al dipendente e compatibilmente con le tecnologie adottate da ciascuna impresa. Inoltre, a nostro avviso, l’interpretazione dell’articolo 2087 c.c. non può essere dilatata fino a comprendervi ogni ipotesi di danno, semplicemente sull'assunto che il rischio non si sarebbe verificato in presenza di ulteriori accorgimenti. In ogni caso, il lavoratore che volesse dimostrare di aver contratto il coronavirus per essersi recato a lavoro (per non aver avuto la possibilità di lavorare da remoto), comunque avrebbe l’onere di provare di aver contratto la malattia a lavoro o sul tragitto da/per casa, il che appare davvero arduo, considerando i rischi di contagio a cui tutti sembrano essere esposti quotidianamente.

Un ulteriore aspetto – sempre connesso alle svariate casistiche che, in queste settimane, si possono presentare nella gestione dei rapporti di lavoro – riguarda la possibilità per il datore di lavoro di considerare come ingiustificata l’assenza del dipendente dal luogo di lavoro per il semplice timore di contrarre il virus (quindi senza aver contratto la malattia o essere stato posto in quarantena da ordini delle autorità).

A tal riguardo, un recente approfondimento della Fondazione Studi Consulenti del lavoro – diffuso in data 24 febbraio 2020 – ha chiarito, infatti, che in assenza di specifici ordini dell’autorità il fenomeno dell’epidemia non è sufficiente a giustificare – di per sé – la malattia. Tale comunicazione ha inoltre ricordato che – come noto – l’assenza ingiustificata dal luogo di lavoro, se reiterata, può giungere a comportare il licenziamento del dipendente.

Come ogni provvedimento disciplinare, il licenziamento per assenza ingiustificata deve essere proporzionato alla condotta del lavoratore e alla situazione concreta. Inoltre, è possibile che i contratti collettivi disciplinino il limite temporale entro cui l’assenza del dipendente sia tollerata, nonché i conseguenti provvedimenti disciplinari in caso di superamento del predetto limite.

Pertanto, qualora – per esempio – il dipendente si astenesse per più giorni dal lavoro sulla base del semplice timore di contrarre il virus, è lecito che il datore di lavoro valuti tale condotta e adotti i relativi provvedimenti, in conformità alle disposizioni di legge e del contratto collettivo eventualmente applicabile.

In ogni caso, data la particolarità della situazione, prima di prendere decisioni drastiche, è comunque consigliabile che ogni datore di lavoro valuti, in concreto, il singolo rapporto di lavoro (come, per esempio, il luogo di residenza, il numero di giorni di assenza, le condizioni fisiche e/o di salute, le eventuali motivazioni addotte dal dipendente, le mansioni svolte, ecc.) e consideri, di conseguenza, eventuali misure alternative – se applicabili – come per esempio l’aspettativa retribuita o, riprendendo quanto esposto sopra, le modalità di smart-working, messe al momento a disposizione dall’ordinamento.

Ufficio di rappresentanza:

  • Diego GIOVINAZZO, reggente (Segretario generale Confimpresa);

  • Alessandro BONAFINE, responsabile dei rapporti istituzionali; tel. +212679749704 - +393519220819

  • Nour-Eddine EL OUAFI, responsabile dei rapporti economico sociali; tel. +212682543403 - +393519622419

  • 35/36 AVENUE MOHAMED ZERKTOUNI APP. N 10 GUELIZ MARRAKECH (MAROC)
  • E-mail : Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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