Sabato, 29 Febbraio 2020 11:04

Coronavirus: tra “obbligo” di smartworking e assenza ingiustificata dal luogo di lavoro

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Il primo DPCM ha introdotto, all'articolo 3, l'applicazione automatica della modalità di lavoro agile (smart-working) anche in assenza di accordi individuali ma sempre nel rispetto della legge 22 maggio 2017 n.81, ad ogni rapporto di lavoro subordinato "nell'ambito di aree considerate a rischio e nelle situazioni di emergenza nazionale e locale". In aggiunta, il secondo DPCM, pubblicato in Gazzetta Ufficiale in data 25 febbraio 2020, ha poi esteso, all'articolo 2, l'ambito geografico di applicazione dello smart-working a sei regioni italiane, ed in particolare ad Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Piemonte, Veneto e Liguria ovvero quelle che sarebbero le più colpite dal virus 

Tale modalità di lavoro agile sarà applicabile, in via automatica, fino al 15 marzo 2020, e secondo una comunicazione del 24 febbraio 2020 del Ministero del Lavoro, l'accordo individuale sarebbe sostituito da un'autocertifciazione, in cui viene attestato che lo smart-working si applica nei confronti un soggetto appartenente ad una delle aree a rischio. 

Alla luce delle recenti disposizioni legislative, ci si chiede allora se nel caso in esame sussiste un obbligo a carico del datore di lavoro ad accordare lo smart-working in riferimento alle zone specificamente indicate dalla normativa oppure se abbia la facoltà di rifutarlo, laddove per esempio questo non sia applicabile per la tipologia di mansioni svolte dal dipendente. Per poter rispondere a questo quesito, i nuovi provvedimenti legislativi vanno sicuramente letti alla luce dell’articolo 2087 c.c. (che richiede al datore di adottare “le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”), nonché alle disposizioni del D.Lgs. 81/2008, che prevede in capo al datore di lavoro l’obbligo di tutela del lavoratore da rischi connessi al rapporto di lavoro, ivi incluso il rischio biologico . 

In diverse occasioni, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che la responsabilità datoriale – ai sensi dell’articolo 2087 c.c. – va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge, o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento, nonché ancorata al presupposto teorico secondo cui il verificarsi dell'evento costituisce circostanza inequivocabilmente scaturita dal mancato uso di mezzi di prevenzione da parte del datore di lavoro (cfr. Cass. Civ. 6 novembre 2019, n. 28516).

Tuttavia, le misure emergenziali adottate in questo preciso momento – sia a livello nazionale sia a livello locale/regionale – rappresentano nuovi strumenti a disposizione di tutti i datori di lavoro, soprattutto quelli presenti o vicini alle zone interessate (e specificatamente richiamate da alcune disposizioni) e, pertanto, andrebbero adeguatamente favorite e rispettate, nei limiti - comunque – della tipologia di lavoro richiesto al dipendente e compatibilmente con le tecnologie adottate da ciascuna impresa. Inoltre, a nostro avviso, l’interpretazione dell’articolo 2087 c.c. non può essere dilatata fino a comprendervi ogni ipotesi di danno, semplicemente sull'assunto che il rischio non si sarebbe verificato in presenza di ulteriori accorgimenti. In ogni caso, il lavoratore che volesse dimostrare di aver contratto il coronavirus per essersi recato a lavoro (per non aver avuto la possibilità di lavorare da remoto), comunque avrebbe l’onere di provare di aver contratto la malattia a lavoro o sul tragitto da/per casa, il che appare davvero arduo, considerando i rischi di contagio a cui tutti sembrano essere esposti quotidianamente.

Un ulteriore aspetto – sempre connesso alle svariate casistiche che, in queste settimane, si possono presentare nella gestione dei rapporti di lavoro – riguarda la possibilità per il datore di lavoro di considerare come ingiustificata l’assenza del dipendente dal luogo di lavoro per il semplice timore di contrarre il virus (quindi senza aver contratto la malattia o essere stato posto in quarantena da ordini delle autorità).

A tal riguardo, un recente approfondimento della Fondazione Studi Consulenti del lavoro – diffuso in data 24 febbraio 2020 – ha chiarito, infatti, che in assenza di specifici ordini dell’autorità il fenomeno dell’epidemia non è sufficiente a giustificare – di per sé – la malattia. Tale comunicazione ha inoltre ricordato che – come noto – l’assenza ingiustificata dal luogo di lavoro, se reiterata, può giungere a comportare il licenziamento del dipendente.

Come ogni provvedimento disciplinare, il licenziamento per assenza ingiustificata deve essere proporzionato alla condotta del lavoratore e alla situazione concreta. Inoltre, è possibile che i contratti collettivi disciplinino il limite temporale entro cui l’assenza del dipendente sia tollerata, nonché i conseguenti provvedimenti disciplinari in caso di superamento del predetto limite.

Pertanto, qualora – per esempio – il dipendente si astenesse per più giorni dal lavoro sulla base del semplice timore di contrarre il virus, è lecito che il datore di lavoro valuti tale condotta e adotti i relativi provvedimenti, in conformità alle disposizioni di legge e del contratto collettivo eventualmente applicabile.

In ogni caso, data la particolarità della situazione, prima di prendere decisioni drastiche, è comunque consigliabile che ogni datore di lavoro valuti, in concreto, il singolo rapporto di lavoro (come, per esempio, il luogo di residenza, il numero di giorni di assenza, le condizioni fisiche e/o di salute, le eventuali motivazioni addotte dal dipendente, le mansioni svolte, ecc.) e consideri, di conseguenza, eventuali misure alternative – se applicabili – come per esempio l’aspettativa retribuita o, riprendendo quanto esposto sopra, le modalità di smart-working, messe al momento a disposizione dall’ordinamento.

Avv. Giuseppe CAPONE

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