Avv. Giuseppe CAPONE

Avv. Giuseppe CAPONE

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Il periodo di emergenza giustifica anche l’applicazione, a determinate condizioni e per un tempo limitato, del Codice dell’Ordinamento Militare e di alcuni istituti in esso contenuti come la requisizione di beni mobili e immobili. Oltre alle questioni di carattere sostanziale si pongono anche questioni di carattere processuale che si risolvono in entrambi i casi in giustificate limitazioni dei diritti.

Il periodo di emergenza che il Paese sta vivendo ha portato il legislatore a dover adottare misure particolarmente importanti al fine di arginare la diffusione del virus.

Gli interventi, partiti ormai dalla dichiarazione dello stato di emergenza internazionale del 31.01.2020, pronunziata in pari data con la delibera del Consiglio dei Ministri (G.U. n. 26 01.02.2020), si sono succeduti nel corso di queste ultime settimane e sono sfociati nel noto Decreto Legge 17 marzo 2020, n. 18 c.d. “Cura Italia” all’interno del quale sono state previste numerose misure tese a supportare il sistema sanitario, giudiziario, economico, lavorativo, sociale del Paese in questo periodo di gestione dell’attuale fase particolarmente complessa.

A questo proposito, merita una particolare menzione l’art. 6, rubricato “Requisizioni in uso o in proprietà”, che consente al Capo del Dipartimento della protezione civile di disporre la requisizione in uso o in proprietà, da ogni soggetto pubblico o privato, di presidi sanitari e medico-chirurgici, nonché di beni mobili di qualsiasi genere.

L’ablazione è soggetta ad un presupposto funzionale, nel senso che può essere impiegata per fronteggiare l’attuale emergenza sanitaria, anche per assicurare il rifornimento di strutture e di equipaggiamenti alle aziende sanitarie o ospedaliere ubicate sul territorio nazionale, nonché per implementare il numero di posti letto specializzati nei reparti di ricovero dei pazienti affetti da patologie derivanti dal contagio virale, nonché ad un limite di durata, potendo protrarsi per un periodo non superiore a sei mesi (suscettibile, però, di essere differito sino all’esaurimento dello stato di emergenza, ad oggi fissato al 31 agosto 2020).

La requisizione, nel nostro ordinamento, è prevista, al vertice del sistema delle fonti, dall’art. 42, comma 3, Cost., che, nel disciplinare la più ampia fattispecie dell’espropriazione, la condiziona alla ricorrenza di motivi di interesse generali, alla promulgazione di una legge o atto avente forza di legge che la preveda ed al riconoscimento, in favore del titolare del diritto, di un’indennità, che, secondo l’insegnamento proveniente dalla Corte Costituzionale, deve essere serio, congruo, adeguato e non meramente simbolico (sentenze n. 138 del 6 dicembre 1977n. 58 del 6 marzo 1974n. 63 del 28 aprile 1970n. 115 dell’8 luglio 1969n. 22 del 9 aprile 1965n. 91 del 18 giugno 1963).

Il diritto comune, invece, si occupa (invero marginalmente) della questione all’art. 835c.c., il quale, dopo aver stabilito che “quando ricorrono gravi e urgenti necessità pubbliche, militari o civili, può essere disposta la requisizione dei beni mobili o immobili. Al proprietario è dovuta una giusta indennità”, al secondo aggiunge che “le norme relative alle requisizioni sono determinate da leggi speciali”.

La norma privatistica, quantomeno ad un esame letterale, sembrerebbe garantire il proprietario in misura persino più accentuata della disposizione costituzionale (cronologicamente posteriore), poiché pone i requisiti della gravità e dell’urgenza quali presupposti imprescindibili per la compressione del diritto dominicale.

Con tutta verosimiglianza, ciò è dipeso dalla diversità fra i valori etico-politici espressi dalla Costituzione rispetto al Codice Civile con riferimento al bilanciamento fra diritti individuali ed aspirazioni della collettività: se per questo l’utilità sociale segna unicamente il limite estrinseco della proprietà privata, per quella ne costituisce addirittura la funzione intrinseca, ovverosia il fine che deve necessariamente contribuire ad attuare.

Tornando al Decreto “Cura Italia”, ad un’analisi di primissima approssimazione, emergono talune perplessità nella lettura dell’art. 6, comma 9, che così dispone: “in ogni caso di contestazione, anche in sede giurisdizionale, non può essere sospesa l’esecutorietà dei provvedimenti di requisizione di cui al presente articolo, come previsto dall’art. 458 del D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 66”, che contiene il “Codice dell’Ordinamento Militare”.

Tale rinvio è spiegato dalla naturale propensione del predetto apparato normativo a regolare misure emergenziali e a giustificare, in presenza di tali eccezionali circostanze, la limitazione dei normali diritti della persona e del cittadino: non è un caso, al riguardo, che il codice militare sancisca l’operatività della requisizione in caso di guerra ovvero, appunto, di grave crisi internazionale (art. 315, comma 2°).

Se l’evocazione del codice militare, astrattamente considerata, appare comprensibile e condivisibile, non altrettanto rassicurante è il riferimento all’art. 458 di tale compendio normativo, richiamato allo scopo di disciplinare i ricorsi giurisdizionali e, nella sostanza, per escludere che possa essere cautelarmente sospesa l’esecuzione del provvedimento amministrativo di requisizione.

L’art. 458 C.O.M., infatti, è inserito all’epilogo di un titolo dedicato alla requisizione di una serie di beni per la locomozione (cavalli, muli ed altri veicoli da soma, veicolo ordinari a trazione animale, veicoli a motore a trazione meccanica, biciclette d’ogni sorta, natanti d’ogni specie) che, con tutta verosimiglianza, non serviranno all’ente pubblico per combattere l’odierna epidemia, la quale, per ovvie ragioni, esigerà la temporanea apprensione di attrezzature sanitarie, come presidi ospedalieri, equipaggiamenti medici, strumenti chirurgici e, comunque, gli oggetti necessari per l’esecuzione di diagnosi, cure e terapie.

Atteso che le norme sulla requisizione sono di stretta esegesi e non sono suscettibili, pertanto, di rimaneggiamenti interpretativi in sede giudiziale, sembrerebbe che il combinato disposto dell’art. 6, 9° comma, del Decreto “Cura Italia” e dell’art. 458 C.O.M. escluda il potere/dovere del giudice di sospendere cautelativamente i provvedimenti di requisizione soltanto per l’ipotesi in cui essi incidano sui beni per la locazione, confermandolo, invece, per tutti i casi in cui riguardino altri beni, fra i quali, appunto, gli strumenti sanitari.

La paradossale conseguenza interpretativa potrebbe essere prevenuta in sede di conversione in legge del Decreto “Cura Italia”, estendendo il richiamo all’art. 397, 2° comma, C.O.M., contenuto nella sesta sezione, che detta disposizioni comuni in materia di requisizione di beni mobili e immobili di cui all’art. 371 C.O.M.

In ogni caso, la trattazione dell’istanza di inibitoria è riservata dall’art. 85 del decreto “Cura Italia” al giudice amministrativo con decreto pronunziato dal Presidente del Tribunale competente ovvero da altro giudice da lui delegato, mentre la trattazione collegiale dovrà essere fissata ad una data immediatamente successiva al 15 aprile 2020.

Giova altresì sottolineare che la requisizione attribuisce al proprietario il diritto ad un indennizzo, che sarà pari, in caso di requisizione in proprietà, all’interno valore del bene e, in ipotesi di requisizione in uso, ad un quarantaduesimo di detto valore per ciascuno mese di durata del provvedimento.

La requisizione in uso si converte automaticamente in requisizione in proprietà qualora, entro il termine di sei mesi dall’apprensione del bene ad opera della pubblica amministrativa, esso non sia restituito al proprietario nel luogo in cui è stato prelevato e nello stato in cui si trovava precedentemente, salvo che l’interessato non acconsenta alla proroga del termine.

In ipotesi di conversione della requisizione in uso in requisizione in proprietà, a prescindere dalla causa che l’ha determinata, il proprietario, ovviamente, avrà diritto ad una maggiorazione dell’indennizzo, pari alla differenza fra quella prevista per il caso di espropriazione e quella già riscossa per il mancato uso.

Da ultimo, occorre spendere qualche parola sulle sorti dei contratti che abbiano ad oggetto il bene requisito, ad esempio il leasing contratto per la sua acquisizione.

Visto che, con riferimento a tale questione, non si verte in ipotesi di definizione dei presupposti legittimanti la requisizione (da interpretarsi in chiave letterale), ma di determinazione delle conseguenze giuridiche che ne derivano, non è così azzardato immaginare che possa applicarsi in via analogica l’art. 398 C.O.M., il cui contenuto è bene riportare per esteso:

“L’ordine di requisizione risolve di diritto qualsiasi contratto che ha per oggetto il bene requisito, se l’esecuzione del contratto non è compatibile con l’esecuzione dell'ordine di requisizione. L’ordine di requisizione libera di diritto il proprietario da qualsiasi obbligazione nei confronti di terzi. La risoluzione dei contratti non dà luogo a rimborso di spese né a risarcimento di danni a favore di chiunque.

Se la requisizione cessa prima della scadenza convenuta o prorogata del contratto, il contraente che aveva l’uso o il godimento del bene requisito ha diritto a riavere tale uso o godimento, fino al termine convenuto o prorogato del contratto, alle stesse condizioni precedenti, salve le modificazioni legali eventualmente intervenute”.

Qualora il conduttore finanziario sia in bonis rispetto al pagamento al pagamento delle rate esposte nel piano di ammortamento, non sembrerebbero emergere difficoltà interpretative: in caso di requisizione in proprietà, il bene viene sottratto al locatore finanziario, il quale potrà pretendere l’indennizzo dalla pubblica amministrazione, da commisurarsi al valore residuo del bene, mentre nulla potrà rivendicare dal conduttore finanziario; in ipotesi di requisizione in uso, il conduttore finanziario viene privato del diritto di godimento sull’oggetto e riceverà un indennizzo che impiegherà per pagare le rate (qualora esso non fosse sufficiente, egli non sarà tenuto al risarcimento del danno, ossia al pagamento degli interessi, visto che l’inadempimento e/o il ritardo è dipeso da causa di forza maggiore ex art. 1218 c.c.).

Delle problematiche potrebbero manifestarsi, invece, qualora il conduttore finanziario, al momento della requisizione in proprietà, si trovi in una situazione di morosità: in questo occorre domandarsi se l’estinzione del contratto produca o meno la liberazione del conduttore finanziario dal dovere di corrispondere gli interessi moratori già accumulati.

La risposta parrebbe negativa in virtù del principio di irretroattività degli effetti prodotti dalla risoluzione del contratto a prestazioni continuative e/o periodiche, stabilita dall’art. 1458 c.c. e non derogata, nella specie, dalla legislazione speciale.

Da ultimo, è ragionevole interrogarsi su quale sia il soggetto legittimato a concedere la proroga della requisizione in uso ovvero ad esigerne la trasformazione in requisizione in proprietà, con ogni conseguenza in punto di indennizzo, laddove il termine semestrale per la restituzione del bene nello status quo ante non sia rispettato. Al riguardo, sembrerebbe che il proprietario non possa essere privato di tale diritto, visto che esso risulta estraneo al ventaglio di facoltà di godimento che il locatore trasferisce provvisoriamente al conduttore.

Ogni valutazione, però, è resa estremamente incerta e problematica dall’eccezionalità del fenomeno, con cui il giurista, in epoca repubblicana, non si è mai confrontato e che è costretto ad affrontare in difetto di precedenti giurisprudenziali che ne sappiano indirizzare le soluzioni interpretative.

 

In data 2 marzo 2020, il Garante per la Privacy si è nuovamente pronunciato in merito al tema legato al Coronavirus, offrendo ulteriori e più specifici chiarimenti in merito alle misure che soggetti pubblici e privati devono adottare relativamente al trattamento dei dati personali in conformità alle disposizioni di cui al GDPR. 

Il virus Covid-19, meglio noto come Coronavirus, ha impattato e continua a impattare negativamente sulle nostre vite sotto diversi profili e, per quanto qui rileva, anche in relazione al trattamento dei dati personali. Già in data 31 gennaio 2020 il Consiglio dei Ministri si era riunito per accertare e dichiarare lo stato di emergenza sul territorio nazionale. Nell’ambito di detto stato di emergenza, il Capo Dipartimento della Protezione Civile aveva ritenuto opportuno rivolgersi al Garante della Privacy al fine di ottenere un parere favorevole in merito alla bozza di ordinanza relativa al trattamento dei dati personali sanitari, relativi alla salute, ai sensi di cui all’art. 9 oltreché i dati di cui all’art. 10 del GDPR

Con riferimento a detta richiesta il Garante si era pronunciato favorevolmente, in particolare sostenendo che:

a) i soggetti di cui all’articolo 1 della stessa nonché quelli operanti nel Servizio nazionale di Protezione civile (artt. 4 e 13 del D. Lgs. 2 gennaio 2018, n. 1), possono “effettuare trattamenti, ivi compresa la comunicazione tra loro, di dati personali anche relativi agli artt. 9 e 10 del GDPR, che risultino necessari per l’espletamento della funzione di protezione civile al ricorrere dei casi di cui agli artt. 23, comma 1, e 24, comma 1, del D. Lgs. 2 gennaio 2018, n. 1”, con una scadenza fissata al 30 giugno 2020;

b) i dati personali raccolti possono essere comunicati a soggetti pubblici e privati diversi da quelli di cui alla lettera a), nonché è ammissibile la diffusione dei dati personali diversi da quelli di cui agli artt. 9-10, laddove la comunicazione e diffusione siano necessarie ai fini dello svolgimento delle attività previste dall’ordinanza stessa;

c) il trattamento dei dati personali deve avvenire in conformità ai principi sanciti ai sensi di cui all’art. 5 GDPR restando inteso che, attesa l’emergenza, occorre “contemperare la funzione di soccorso con quella afferente la salvaguardia della riservatezza degli interessati”.

 

In data 2 marzo 2020, il Garante per la Privacy si è nuovamente pronunciato in merito al tema legato al Coronavirus, offrendo ulteriori e più specifici chiarimenti in merito alle misure che soggetti pubblici e privati devono adottare relativamente al trattamento dei dati personali in conformità alle disposizioni di cui al GDPR.

Il Garante, infatti, ha dichiarato di aver ricevuto numerosi quesiti posti da soggetti pubblici e privati in merito alla possibilità di raccogliere “all’atto della registrazione di visitatori e utenti di informazioni circa la presenza di sintomi da Coronavirus e notizie sugli ultimi spostamenti, come misura preventiva. Analogamente, datori di lavoro pubblici e privati hanno chiesto al Garante la possibilità di acquisire una “autodichiarazione” da parte dei dipendenti in ordine all’assenza di sintomi influenzali, e vicende relative alla sfera privata”.

In merito a dette richieste, il Garante ha ribadito quanto già in precedenza affermato. In particolare, l’Autorità ha invitato i soggetti titolari al trattamento dei dati, siano essi pubblici o privati, a attenersi scrupolosamente alle indicazioni fornite dal Ministero della Salute e dalle istituzioni competenti per la prevenzione della diffusione del Virus, diffidandoli dall’assumere qualsiasi iniziativa autonoma relativa alla raccolta di dati personali, anche sanitari relativi alla salute, di utenti o lavoratori, che non sia normativamente prevista o disposta dagli organi competenti.

Infatti, ciò che rileva è certamente l’obbligatoria conformità della raccolta dei dati ai sensi di cui all’art. 5, che stabilisce e determina i principi generali cui necessariamente occorre conformarsi nell’ambito del trattamento dei dati personali. Nello specifico, infatti, il Garante ha rilevato che “l’accertamento e la raccolta di informazioni relative ai sintomi ... e alle informazioni sui recenti spostamenti di ogni individuo spettano agli operatori sanitari e al sistema attivato dalla protezione civile, che sono gli organi deputati a garantire il rispetto delle regole di sanità pubblica recentemente adottate”. Da ciò ne deriva che, solo gli organi qualificati, competenti e a ciò preposti, possono procedere al trattamento di tali categorie particolari di dati, al fine di rendere, pertanto, illegittimo ogni trattamento eventualmente effettuato da soggetti pubblici e/o privati. 

È, quindi, vietato ai datori di lavoro, pubblici e privati raccogliere in modo sistematico e generalizzato, anche attraverso specifiche richieste ai singoli o mediante loro autodichiarazioni (non spontanee, invece ammesse). I datori di lavoro devono, pertanto, astenersi dall’adottare condotte ispettive e di indagine preventiva. Una siffatta attività, infatti, oltre a non essere conforme ai principi di cui all’art. 5 (liceità, minimizzazione dei dati, necessarietà, etc.), non è conforme alle misure eccezionali che rientrano nella sfera di competenza delle autorità pubbliche preposte. 

In casi particolari di necessità e urgenza, inoltre, le stesse autorità pubbliche, anche di concerto con l’Autorità Garante, possono adottare misure più restrittive ovvero introdurre disposizioni più specifiche affinché il GDPR possa correttamente trovare applicazione. Nel caso in esame, infatti, per ben due volte l’intervento del Garante è stato necessario per offrire delucidazioni e maggiore chiarezza interpretativa del Regolamento UE 679/2016

Ciò che ci si auspica, oltre ai chiarimenti già offerti dal Garante relativamente alla raccolta e trattamento dei dati da parte dei datori di lavoro, è una maggiore sensibilità afferente alla necessaria salvaguardia della riservatezza dei soggetti interessati, come suesposto, in conformità dell’art. 5 da parte degli organi/enti di pubblica informazione (quotidiani, media, telegiornali).

Non pare revocabile in dubbio, infatti, che si è assistito a condotte prive delle necessarie cautele in merito al bilanciamento tra diritto di cronaca e la tutela del diritto fondamentale alla riservatezza di eventuali soggetti colpiti malauguratamente dal Virus.

A parere di chi scrive, infatti, l’indicazione dei nominativi (nome e cognome) nonché di ogni altro dato (sesso, età, attività lavorativa, interessi di qualsivoglia natura) non rilevano ai fini di pubblica informazione e di cronaca, di cui all’art. 21 Cost. quale libertà di manifestazione del pensiero.

Si ritiene, infatti, che quale requisito e presupposto minimo, sarebbe stato opportuno procedere alla pseudonimizzazione dei dati personali degli interessati, in conformità con quanto disposto ai sensi di cui all’art. 5 GDPR al fine di garantire il diritto alla riservatezza, quale estrinsecazione di un altro principio fondamentale della nostra Carta Costituzionale, rinvenibile estensivamente ai sensi di cui all’art. 15.

Nel caso di specie si ritiene non vi sia stato un corretto bilanciamento tra il diritto alla riservatezza e il diritto di cronaca. Quantomeno, sarebbe stato opportuno adottare le cautele minime riconosciute dall’art. 5 GDPR, in virtù del quale (oltre alla citata pseuodonimizzazione) viene in risalto il principio di essenzialità del dato, che certamente rappresenta un limite al diritto di cronaca.

Certamente vi saranno futuri interventi da parte del Garante in merito.

 

 

Si analizza, in questo articolo, la disciplina introdotta in tema di attribuzione di classi di merito RC auto dai commi 4 ter dell’art. 12, D.L. 30 dicembre 2019, n. 162 convertito con L. 28 febbraio 2020, n. 8.

Il comma 4 ter dell’art. 12D.L. 30 dicembre 2019, n. 162 (convertito con L. 28 febbraio 2020, n. 8) inserisce un nuovo comma 4 ter.2 all’art. 134 del Codice delle assicurazioni private attuato con il D.Lgs. n. 209/2005 che disciplina l’attestato di rischio e l’attribuzione della classe di merito nell’ambito dell’assicurazione Responsabilità Civile autoveicoli, con particolare riferimento a quella familiare, disciplinata dall’art. 134, comma 4 bis dello stesso Codice delle assicurazioni private.

L’art. 134, comma 4 bis del Codice assicurazioni private - per effetto delle modifiche apportate dall’art. 55 bis del d.l. 26 ottobre 2019, n. 124 - stabilisce che a) in tutti i casi di stipula e b) in tutti i casi di rinnovo di un contratto di assicurazione di un mezzo di trasporto, anche di diversa tipologia, ove si verifichi un sinistro di cui è responsabile - in via esclusiva o principale - un conducente collocato nella classe di merito più favorevole per il veicolo di diversa tipologia, ai sensi delle disposizioni sulla RC auto familiare, e che abbia comportato il pagamento di un indennizzo complessivamente superiore a 5.000 euro, le imprese assicurative, alla prima scadenza successiva del contratto, possono assegnare, per il solo veicolo di diversa tipologia coinvolto nel sinistro, una classe di merito superiore fino a cinque unità rispetto ai criteri indicati dall'Ivass.

Le disposizioni normative di nuovo conio si applicano unicamente ai soggetti beneficiari dell'assegnazione della classe di merito più favorevole per il solo veicolo di diversa tipologia, ai sensi delle disposizioni di cui al comma 4 bis come modificato dal D.L. n. 124/2019.

Il comma 4 quater dell’art. 12 dispone che entro il 30 ottobre 2020 l'Ivass trasmetta una relazione sull'applicazione e sugli effetti delle nuove norme al Ministero dello sviluppo economico, al Ministero dell'economia e delle finanze e alle Commissioni parlamentari competenti.

 

La nuova disciplina della RC autoveicoli consente quindi di differenziare le conseguenze assicurative derivanti dai sinistri di cui sono responsabili i conducenti dei diversi veicoli che beneficiano della disciplina della RC auto familiare.

Criticità

La nuova disposizione normativa prevede come limite per fare scattare la sanzione del “malus” soltanto il pagamento di un indennizzo complessivamente superiore a cinquemila euro, facendo chiaramente intendere il riferimento ad un singolo sinistro.

Quid juris se lo stesso conducente per cui trova applicazione la disposizione sul malus commette invece più sinistri ciascuno di importo inferiore a cinquemila euro, ma complessivamente, tenendo conto del numero di sinistri, di importo superiore al limite previsto ex lege?

A ciò aggiungasi che la norma in esame si riferisce alla classe di merito riferita ai veicoli già assicurati non anche in uso esclusivo ai componenti del nucleo familiare.

Quid juris se il sinistro viene commesso da un soggetto diverso da quello assicurato?

La nuova disciplina si riferisce espressamente al solo conducente collocato nella classe di merito più favorevole per il veicolo di diversa tipologia che abbia comportato il pagamento di un indennizzo complessivamente superiore a cinquemila euro, lasciando così chiaramente intendere che la persona del conducente coincida con quella dell’assicurato.

E se invece il veicolo per una qualsiasi ragione viene guidato da un altro soggetto diverso dal conducente collocato nella classe di merito più favorevole per il veicolo di diversa tipologia che non fa parte del nucleo familiare, il quale, occasionalmente commette il sinistro, cosa succede, si applicherà comunque il malus?

Stando alla norma di chiusura, dovrebbe pervenirsi ad una soluzione negativa, nel senso che poiché le suddette disposizioni si applicano unicamente ai soggetti beneficiari dell'assegnazione della classe di merito più favorevole per il solo veicolo di diversa tipologia, ai sensi delle disposizioni di cui al comma 4 bis come modificato dal D.L. n. 124/2020, appare evidente che esulano dal perimetro di applicazione della nuova disciplina i sinistri commessi da un conducente diverso sebbene alla guida del veicolo appartenente ad assicurato rientrante nel nucleo familiare.

Pertanto, appare evidente come a scongiurare l’applicazione del malus previsto dalla suddetta disposizione normativa, aggirando la norma, basterà che il sinistro risulti essere stato commesso da un soggetto diverso dal conducente collocato nella classe di merito più favorevole per il veicolo di diversa tipologia - a mero titolo di esempio, si pensi a veicoli intestati a singoli componenti dello stesso nucleo familiare usati da personale dipendente di un’impresa familiare - ciò che a ben vedere, potrebbe comportare un consistente e generalizzato aumento delle tariffe r.c. auto da parte delle Compagnie assicuratrici al fine di “spalmare” sul mercato dell’utenza l’aumento dei costi per i sinistri rc auto.

 

Ove dovesse verificarsi tale ipotesi, presumibilmente, potrebbe conseguire un’ulteriore criticità, dovuta al fatto che se le tariffe dovessero essere riviste al rialzo, davvero esisterebbero i risparmi di spesa ipotizzati con riferimento agli assicurati dei diversi veicoli che beneficiano della disciplina della RC auto familiare?

La pronuncia del 10 gennaio 2020 della Commissione Tributaria Regionale di Bologna affronta il caso della destinazione a dimora famigliare, tramite concessione di diritto di comodato a un coniuge al fine di utilizzarlo per tal scopo, da parte di un terzo estraneo al rapporto di coniugio. All’atto della separazione, tal bene viene assegnato a uno degli ex-coniugi; nondimeno il Comune richiede l’IMU anche al proprietario del bene (la madre di uno degli ex coniugi) che avrebbe mantenuto (anch’ella) la soggettività passiva. La CTR va di contrario avviso, sostenendo che la traslazione della soggettività passiva operata dalla disposizione del 2012 identifica uno e un solo soggetto passivo, nella persona dell’assegnatario del bene.

La questione affrontata dalla pronuncia in commento riguarda l’applicazione dell’art. 4 comma 12 quinquies D.L. n. 16/2012 conv. in L. n. 44/2012: la disposizione normativa in questione recita che “ai soli fini dell’applicazione dell'imposta municipale… l’assegnazione della casa coniugale al coniuge, disposta a seguito di provvedimento di separazione legale, annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, si intende in ogni caso effettuata a titolo di diritto di abitazione”. Nel caso concreto, la CTP rigettava il ricorso del contribuente, argomentando che la norma in questione, avendo natura eccezionale e di deroga ai principi generali, deve essere interpretata in modo letterale e non estensivo; e quindi, in base al suo dettato letterale, essa attribuiva la soggettività passiva IMU unicamente al coniuge assegnatario dell’immobile a seguito di separazione, laddove sia l’altro coniuge ad essere proprietario o comproprietario; ma laddove, come nel caso che qui occupa, il coniuge non assegnatario non sia titolare di un diritto reale sull’immobile, non può essere esclusa la soggettività passiva IMU anche del proprietario che sia comodante e soggetto terzo rispetto alla separazione.

Nella fattispecie, la madre di uno dei coniugi aveva concesso in comodato gratuito al figlio un immobile allo scopo di destinarlo ad abitazione coniugale; l’immobile era stato effettivamente destinato ad abitazione coniugale sino alla separazione degli stessi. In sede di giudizio di separazione, lo stesso era stato dal Tribunale assegnato alla moglie, che aveva iniziato a corrispondere al Comune di Forlì le somme richieste a titolo di IMU. In seguito, il Comune ha però richiesto il pagamento dell’IMU anche alla proprietaria del bene, che impugnava gli avvisi di accertamento sostenendo proprio ex art. 4 comma 12 quinquies D.L. n. 16/2012, che il solo soggetto passivo ai fini IMU era da ritenersi il coniuge assegnatario dell’immobile, indipendentemente da ogni considerazione in ordine al fatto che proprietario sia l’altro coniuge od un terzo estraneo alla relazione di coniugio.

La CTR, in riforma della pronuncia di primo grado, ritiene che il legislatore abbia specificamente disciplinato il presupposto impositivo nell’ipotesi di scioglimento del vincolo coniugale, prevedendo che, ai soli fini dell’applicazione dell’imposta municipale sugli immobili, è soggetto passivo del tributo il coniuge a cui viene assegnata la casa coniugale con provvedimento giurisdizionale.

Risulta quindi contraddetto l’assunto del primo giudice, fondato essenzialmente sul solo tenore letterale della norma, che pare attribuire la soggettività passiva unicamente al coniuge assegnatario solo laddove proprietario o comproprietario fosse l’altro coniuge. Ritiene infatti la Commissione Regionale che detta limitazione in primo luogo non possa trarsi “dalla piana analisi esegetica del testo normativo”.

Secondariamente, il giudice dell’appello nota anche come “non può essere condiviso neppure il successivo snodo argomentativo, e cioè che la norma non può essere oggetto di un’interpretazione estensiva in quanto avente natura eccezionale, essendo tale conclusione risultata espressamente disattesa dalla recente pronuncia di Cass. Civ. n. 11416/2019”.

E’ qui richiamato in motivazione quell’argomento della Corte di Legittimità secondo il quale “il presupposto per l’applicazione dell’IMU è il medesimo di quello previsto dall’ICI”, id est “il possesso di immobili di cui all’articolo 2 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504”; e che è “necessario che il rapporto che lega il soggetto all'immobile sia qualificato, riconducibile, quindi, alla proprietà, all’usufrutto o ad altro diritto reale di godimento, o ad un’altra situazione giuridica specificatamente stabilita dalla legge come nel caso di locazione finanziarie o concessione di beni demaniali”.

Ne deriva che “il legislatore ha specificamente disciplinato il presupposto impositivo nell’ipotesi di scioglimento del vincolo matrimoniale, prevedendo che, ai soli fini dell’applicazione dell’imposta municipale sugli immobili, è soggetto passivo del tributo il coniuge a cui viene assegnata la casa coniugale con provvedimento giurisdizionale”; ed in tal modo, “il legislatore ha sancito la traslazione della soggettività passiva dell’IMU dal proprietario all’assegnatario dell’alloggio, cosicché l’imposizione ricade in capo all’utilizzatore”.

Da tale precisazione della Corte di cassazione deriva, secondo la sentenza qui annotata, che non possono desumersi “limiti operativi della norma nel caso di assegnazione a uno dei coniugi a seguito di separazione legale”, e quindi non può sostenersi che essa s’applica solo alla situazione in cui comproprietario o proprietario sia il coniuge non assegnatario; anzi la norma deve essere “interpretata estensivamente”, includendo nel relativo ambito di applicazione anche le ipotesi riconducibili ad una eadem ratio, e per tali motivi trova applicazione, ad esempio, anche alle famiglie di fatto.

 

In forza di tal interpretazione, quindi, secondo la Corte di Legittimità, il convivente "more uxorio", al quale a seguito della cessazione del rapporto viene assegnato l'immobile adibito a casa familiare di proprietà dell'altro convivente, è soggetto passivo di imposta ex art. 4, comma 12-quinquies, del d.l. n. 16 del 2012, conv. in l. n. 44 del 2012, che, non disciplinando un'ipotesi di agevolazione o di esenzione, può essere interpretato estensivamente includendo nel relativo ambito di applicazione, per "eadem ratio", anche per l’appunto i rapporti di convivenza.

 

Mercoledì, 04 Marzo 2020 07:43

Esdebitazione

Secondo la sentenza del Tribunale di Genova del 3 febbraio 2020, l’organismo di composizione della crisi, quantunque legato da uno stretto rapporto fiduciario con il debitore istante, a beneficio del quale è tenuto a svolgere una prestazione di carattere latamente consulenziale, è chiamato a censurare esplicitamente come illegittime o non attuabili delle proposte che non soddisfano i requisiti legali ovvero non sono sostenibili economicamente.

La sentenza n. 273/2020 emessa dal Tribunale di Genova in data 3 febbraio 2020, occupandosi, negandola nel caso specifico, di una presunta responsabilità professionale di un commercialista investito del ruolo di compositore della crisi, offre degli interessanti spunti sull’interpretazione della Legge 27 gennaio 2012, n. 3 e, in modo particolari, su taluni degli interrogativi che essa solleva.

In particolare ci soffermiamo su alcuni chiarimenti forniti dal Tribunale riguardo gli aspetti principali della procedura di sovraindebitamento sui processi esecutivi pendenti. Sul punto, si è evidenziato che:

· l’inibitoria è un provvedimento di competenza esclusiva del giudice delegato, suscettibile di essere trasmesso al giudice dell’esecuzione soltanto a scopi informativi;

· qualora il giudice delegato disponga la sospensione del processo esecutivo, il giudice dell’esecuzione non può che prenderne atto ed è soltanto legittimato ad autorizzare il compimento degli atti urgenti, ai sensi dell’art. 626 c.p.c.;

· nel caso sia stato proposto un accordo per la ristrutturazione del debito, il giudice delegato, nel fissare l’udienza per la verificazione del consenso, è tenuto (e, quindi, non semplicemente facoltizzato) a disporre la sospensione dei processi esecutivi in corso e a stabilire che non possano iniziarne di altri (art. 10, 2° comma, lett. c);

· siffatto provvedimento, invece, non è affatto obbligatorio laddove l’istante presenti un piano del consumatore, nel qual caso l’eventuale sospensione non è obbligatoria, ma facoltativa, richiede una specifica iniziativa del debitore e, in ogni caso, non deve necessariamente investire tutti i pendenti processi esecutivi, ma può riguardare anche soltanto taluni di essi (art. 12-bis, 2° comma);

· la ragione di codesta diversità di trattamento risiede nella circostanza che la ristrutturazione del debito, essendo un procedimento di natura smaccatamente consensuale, implica la raccolta di una certa quantità di consensi presso il ceto creditorio e, quindi, è opportuno che la situazione venga cristallizzata per consentire a ciascuno dei creditori di esprimersi sull’opportunità e sulla convenienza economica dell’offerta;

· al contrario, il piano del consumatore, potendo essere imposto dal giudice ai creditori e, quindi, assumendo dei caratteri propriamente eteronomi ed autoritativi, esige la paralisi dei soli processi esecutivi che, in ragione delle loro specifiche peculiarità, siano idonei, se coltivati, a pregiudicare il proposito concordatario.

 

 

 

Il primo DPCM ha introdotto, all'articolo 3, l'applicazione automatica della modalità di lavoro agile (smart-working) anche in assenza di accordi individuali ma sempre nel rispetto della legge 22 maggio 2017 n.81, ad ogni rapporto di lavoro subordinato "nell'ambito di aree considerate a rischio e nelle situazioni di emergenza nazionale e locale". In aggiunta, il secondo DPCM, pubblicato in Gazzetta Ufficiale in data 25 febbraio 2020, ha poi esteso, all'articolo 2, l'ambito geografico di applicazione dello smart-working a sei regioni italiane, ed in particolare ad Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Piemonte, Veneto e Liguria ovvero quelle che sarebbero le più colpite dal virus 

Tale modalità di lavoro agile sarà applicabile, in via automatica, fino al 15 marzo 2020, e secondo una comunicazione del 24 febbraio 2020 del Ministero del Lavoro, l'accordo individuale sarebbe sostituito da un'autocertifciazione, in cui viene attestato che lo smart-working si applica nei confronti un soggetto appartenente ad una delle aree a rischio. 

Alla luce delle recenti disposizioni legislative, ci si chiede allora se nel caso in esame sussiste un obbligo a carico del datore di lavoro ad accordare lo smart-working in riferimento alle zone specificamente indicate dalla normativa oppure se abbia la facoltà di rifutarlo, laddove per esempio questo non sia applicabile per la tipologia di mansioni svolte dal dipendente. Per poter rispondere a questo quesito, i nuovi provvedimenti legislativi vanno sicuramente letti alla luce dell’articolo 2087 c.c. (che richiede al datore di adottare “le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”), nonché alle disposizioni del D.Lgs. 81/2008, che prevede in capo al datore di lavoro l’obbligo di tutela del lavoratore da rischi connessi al rapporto di lavoro, ivi incluso il rischio biologico . 

In diverse occasioni, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che la responsabilità datoriale – ai sensi dell’articolo 2087 c.c. – va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge, o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento, nonché ancorata al presupposto teorico secondo cui il verificarsi dell'evento costituisce circostanza inequivocabilmente scaturita dal mancato uso di mezzi di prevenzione da parte del datore di lavoro (cfr. Cass. Civ. 6 novembre 2019, n. 28516).

Tuttavia, le misure emergenziali adottate in questo preciso momento – sia a livello nazionale sia a livello locale/regionale – rappresentano nuovi strumenti a disposizione di tutti i datori di lavoro, soprattutto quelli presenti o vicini alle zone interessate (e specificatamente richiamate da alcune disposizioni) e, pertanto, andrebbero adeguatamente favorite e rispettate, nei limiti - comunque – della tipologia di lavoro richiesto al dipendente e compatibilmente con le tecnologie adottate da ciascuna impresa. Inoltre, a nostro avviso, l’interpretazione dell’articolo 2087 c.c. non può essere dilatata fino a comprendervi ogni ipotesi di danno, semplicemente sull'assunto che il rischio non si sarebbe verificato in presenza di ulteriori accorgimenti. In ogni caso, il lavoratore che volesse dimostrare di aver contratto il coronavirus per essersi recato a lavoro (per non aver avuto la possibilità di lavorare da remoto), comunque avrebbe l’onere di provare di aver contratto la malattia a lavoro o sul tragitto da/per casa, il che appare davvero arduo, considerando i rischi di contagio a cui tutti sembrano essere esposti quotidianamente.

Un ulteriore aspetto – sempre connesso alle svariate casistiche che, in queste settimane, si possono presentare nella gestione dei rapporti di lavoro – riguarda la possibilità per il datore di lavoro di considerare come ingiustificata l’assenza del dipendente dal luogo di lavoro per il semplice timore di contrarre il virus (quindi senza aver contratto la malattia o essere stato posto in quarantena da ordini delle autorità).

A tal riguardo, un recente approfondimento della Fondazione Studi Consulenti del lavoro – diffuso in data 24 febbraio 2020 – ha chiarito, infatti, che in assenza di specifici ordini dell’autorità il fenomeno dell’epidemia non è sufficiente a giustificare – di per sé – la malattia. Tale comunicazione ha inoltre ricordato che – come noto – l’assenza ingiustificata dal luogo di lavoro, se reiterata, può giungere a comportare il licenziamento del dipendente.

Come ogni provvedimento disciplinare, il licenziamento per assenza ingiustificata deve essere proporzionato alla condotta del lavoratore e alla situazione concreta. Inoltre, è possibile che i contratti collettivi disciplinino il limite temporale entro cui l’assenza del dipendente sia tollerata, nonché i conseguenti provvedimenti disciplinari in caso di superamento del predetto limite.

Pertanto, qualora – per esempio – il dipendente si astenesse per più giorni dal lavoro sulla base del semplice timore di contrarre il virus, è lecito che il datore di lavoro valuti tale condotta e adotti i relativi provvedimenti, in conformità alle disposizioni di legge e del contratto collettivo eventualmente applicabile.

In ogni caso, data la particolarità della situazione, prima di prendere decisioni drastiche, è comunque consigliabile che ogni datore di lavoro valuti, in concreto, il singolo rapporto di lavoro (come, per esempio, il luogo di residenza, il numero di giorni di assenza, le condizioni fisiche e/o di salute, le eventuali motivazioni addotte dal dipendente, le mansioni svolte, ecc.) e consideri, di conseguenza, eventuali misure alternative – se applicabili – come per esempio l’aspettativa retribuita o, riprendendo quanto esposto sopra, le modalità di smart-working, messe al momento a disposizione dall’ordinamento.

La Pace fiscale, dopo l'approvazione del Senato con 147 si, aspetta adesso il lasciapassare della Camera, ma perde già alcuni pezzi. Via la dichiarazione integrativa speciale. In compenso guadagna la sanatoria degli errori formali con pagamento sdoppiato tra il 31 maggio 2019 e il 2 marzo 2020. E ancora con l'aumento delle rate della rottamazione ter, che passano complessivamente da 10 a 18 per venire incontro ai contribuenti e consentire loro di diluire ulteriormente i pagamenti, si aggiungono ulteriori scadenze sul calendario. 
ROTTAMAZIONE ENTRO IL 7 DICEMBRE PER METTERSI IN REGOLA
Già in dirittura d'arrivo la scadenza del 7 dicembre che consente a chi ha aderito alla rottamzaione bis, di rimettersi in carreggiata con il pagamento delle rate scadute a luglio, settembre e ottobre di quest'anno. 
30 APRILE 2019 PER LE NUOVE ADESIONI
Per aderire invece alla rottamazione ter ci sarà tempo fino al 30 aprile 2019. Poi una volta arrivata la comunicazione degli importi da pagare (attesa entro il 30 giungo 2019) bisognerà iniziare a pagare, con due rate a scadenza 31 luglio 2019 e 30 novembre 2019. Dopo, a partire dal 2020 si potrà pagare in 4 rate annuali, con scadenza 28 febbraio, 31 maggio, 31 luglio e 30 novembre, per un totale di diciotto rate complessive.
STRALCIO DELLE MINICARTELLE ENTRO IL 31 DICEMBRE 2018.
Senza presentare alcuna domanda, il 31 dicembre 2018 verranno automaticamente cancellati i carichi affidati alla riscossione dal 2000 al 2010 fino a mille euro.
31 MAGGIO 2019 PER I PVC E LE LITI PENDENTI
Entro il 31 maggio 2019 dovrà essere presentata la dichiarazione di regolarizzazione delle violazioni constate nel processo verbale (pvc) redatto dagli organi accertatori a seguito delle effettuate verifiche, e versata l'unica o la prima rata delle imposte autoliquidate senza il pagamento di sanzioni e interessi. Invece, sempre entro il 31 maggio 2019, in caso ci procedimento contro il fisco, dovrà essere presentata istanza di definiziione agevolata per ciascuna autonoma controversia e per versare l'unica o la prima rata del dovuto.
ERRORI FOMRALI CON SANATORIA IN DUE TEMPI
Anche per la nuova sanatoria degli errori formali il 31 maggio 2019 sarà decisivo. Scadrà, infatti, in quella data, il versamento della prima rata dei 200 euro per anno d'imposta con cui cancellare le irregolarità formali commesse. Il secondo appuntamento sarà invece fissato per il 2 marzo 2020. 
AVV. GIUSEPPE CAPONE
 
Mercoledì, 28 Novembre 2018 17:33

PACE FISCALE. DEFINIZIONE AGEVOLATA LITI PENDENTI

Le novità in tema di pace fiscale presenti nel decreto fiscale collegato alla legge di bilancio 2019 riguardano anche la riapertura della definizione agevolata delle liti fiscali pendenti. La definizione agevolata delle liti tributarie sarà così congegnata: 
  • nel caso di soccombenza dell'Agenzia delle Entrate nell'unica pronuncia giurisdizionale non cautelare, resa sul merito ovvero sull'ammissibilità del ricorso, alla data di presentazione della domanda di cui al comma 1 dell'articolo 6 con il pagamento:
    1. della metà del valore della controversia in caso di soccombenza dell'Amministrazione Finanziaria in primo grado;
    2. di un quinto dela valore della controversia in caso di soccombenza dell'Amministrazione Finanziaria nel giudizio di secondo grado.
    Inoltre, nel testo del Dl fiscale si legge: " le controversie relative unicamente agli interessi di mora e alle sanzioni non collegate al tributo possono essere definite con il pagamento del 15% del valore della controversia in caso di soccombenza dell'Agenzia delle Entrate nell'ultima o unica pronuncia giurisdizionale non cautelare sul merito o sull'ammissibilità dell'atto introduttivo del giudizio, resa alla medesima data e con il pagamento del 40% negli altri casi". 
    Viene poi sottolineato che sono ammesse alla pace fiscale le controversie in cui il ricorso in primo grado è stato notificato alla controparte entro il 30 settembre 2018 e per le quali alla data della presentazione della domanda il processo non si sia concluso con pronunica definitva.
    AVV. GIUSEPPE CAPONE
     

     

    Pace fiscale anche per chi non ha pagato le precedenti rate della rottamazione bis. La scadenza è fissata al 7 dicembre prossimo. Il decreto fiscale approvato dal governo ha esteso anche ai decaduti dalla rottamazione bis e dalla prima definizione agevolata delle cartelle la possibilità di accedere all'ampio disegno della pace fiscale. I debiti reidui potranno essere sanati senza corrispondere sanzioni e interessi di mora. Le rate scadute a luglio, settembre e ottobre potranno essere versate in un'unica soluzione entro il 7 dicembre 2018 e in tal caso al contribuente verrà concessa la possibilità di accedere ai vantaggi della rottamamzione ter, che prevede il pagamento del debito residuo fino a 10 rate spalmate in 5 anni. Nuova finestra anche per i decaduti dalla prima rottamazione delle cartelle varata con il DL 193/2016 e ai ripescati dal DL 148/2017 che dopo aver presentato domanda non hanno pagato le rate scadute nel 2016. In questi due casi l'accesso alla rottamazione ter sarà automatico. Tutti i contribuenti potranno beneficiare dei vantaggi della nuova definizione agevolata delle cartelle, proseguendo il versamento degli importi residui con un piano di rateizzazione della durata di ben 5 anni e con interessi ridotti allo 0,3%.
    AVV. GIUSEPPE CAPONE 
    Domenica, 11 Novembre 2018 09:21

    ROTTAMAZIONE TER. MODALITA' DI ADESIONE

    L'articolo 3 del D.L. n.119/2018 prevede che il contribuente entro il 30 aprile 2019 possa manifestare all'agente della riscossione la volontà di procedere alla definizione agevolata delle cartelle. Per il contribuente quindi si ripropone la possibilità di sanare la sua posizione debitoria nei confronti del Fisco senza pagare le somme relative a sanzioni ed interessi di mora. Tali effetti premiali, che riproducono quanto già previsto nelle precedenti rottamazioni, siestendono anche a coloro che avevano già fatto ricorso alle predette procedure ma che erano decaduti anche se a condizioni differenti. 
    Per aderire alla rottamazione ter il contribuente dovrà compilare l'apposita modulistica che l'Agente della Riscossione pubblicherà sul proprio sito internet (attualmente non disponibile) indicando il numero di rate, per un massimo di 10, in cui intende effettuare il pagamento dei debiti. 
    Tale istanza dovrà essere presentata entro il 30 aprile 2019.
    Per il contribuente si pone il problema di riuscire a sospendere l'esecuzione delle cartelle esattoriali a suo carico in attesa di richiedere la rottamazione e dunque di evitare eventuali pignoramenti nel frattempo. Se non ha la possibilità di chiedere la rateazione delle pretese (poichè ad esempio è già decaduto) un'altra soluzione, anche se piuttosto "estrema", potrebbe essere quella di proporre un'azione giudiziale.
    Su questo punto è necessario richiamare l'articolo 7 comma 1 lett. m) del D.L. n.70/2011 secondo cui "in caso di richiesta di sospensione giudiziale degli atti esecutivi, non si procede all'esecuzione fino alla decisione del giudice e comunque fino al centoventesimo giorno". Tale norma permette al contribuente che ha proposto un'opposizione agli atti esecutivi di sospendere l'azione esecutiva in attesa di aderire alla rottamamzione ter (ultimo termine 30 aprile 2019) giovandosi degli effetti premiali che permettono di estinguere il proprio debito al netto di sanzioni e interessi.
    AVV. GIUSEPPE CAPONE
    In un recente intervento alla Camera dei Deputati, il Direttore dell'Agenzia delle Entrate ha affermato che i crediti che i diversi enti hanno affidato dal 2000 al 2017 prima ad Equitalia e poi all'Agenzia delle Entrate riscossione (subentrata il 2 luglio 2017) è pari ad 871 miliardi di euro. Tuttavia eliminando gli importi difficilmente recuperabili per varie ragioni, resterebbero solo 84,2 miliardi realmente recuperabili. Importo che scende ulteriormente a 50 miliardi secondo quanto dichiarato il 25 luglio scorso dal ministro dell'Economia, rispondendo ad una interrogazione parlamentare (dal Sole24ore del 14.08.2018). 
    In altre parole, nonostante lo Stato vanti nei confronti dei cnontribuenti (cittadini e imprese) un presunto credito pari a 871 miliardi di euro, stando ai dati forniti dal Direttore dell'Agenzia delle Entrate, solamente 50 miliardi di euro sarebbero dovuti realmente (in pratica poco meno del 6%). Pertanto, dati alla mano, si può affermare che i contribuenti potrebbero subire addidrittura un danno dall'adesione alla Pace Fiscale, in quanto gli stessi potrebbero finire col pagare debiti in realtà non dovuti. E' importante, quindi, che tutti i contribuenti prima di aderire a tali agevolazioni, si informino attentamente in merito alla loro situazione debitoria, al fine di comprendere se i debiti presenti sono realmente dovuti. E' possibile, infatti, che i debiti del contribuente non siano dovuti in parte perchè ad esempio il calcolo degli interessi e delle sanzioni applicate dal concessionario della riscossione 8ex Equitalia ora Agenzia Entrate Riscossione) siano errati oppure addirittura prescritti. A tal proposito segnaliamo alcune recenti sentenze della Corte di Cassazione:
    - i contributi previdenziali e assistenziali (INPS e INAIL) si prescrizono nel termine di 5 anni (Corte di Cassazione n.23397 del 2016)
    - gli interessi applicati sulle sanzioni tributarie sono illegittime (Corte di Cassazione ordinanza n.16533 del 22 giugno 2018)
    AVV. GIUSEPPE CAPONE
    Secondo l'articolo 2, comma 8 bis del DPR 322/1998 "le dichiarazioni dei redditi possono essere integrate dai contribuenti per correggere errori od omissioni che abbiano determinato l'indicazione di un maggior debito di imposta o di un minor credito, mediante dichiarazione da presentare non oltre il termine per la dichiarzione relativa al periodo di imposta successivo. L'eventuale credito risultante dalle dichiarazioni può essere utilizzato in compensazione." Da tale precetto normativo deriva che il contribuente può sempre correggere la dichiarazione presentata e ciò anche durante il processo tributario instaurato su un provvedimento fondato sui dati errati dallo stesso dichiarati. Questa è l'indicazione che emerge da una decisione della Corte di Cassazione, che era stata chiamata a pronunciarsi sull'annullamento di una cartella di pagamento per Ires e Irap a carico di una cooperativa in conseguenza di errori commessi nella dichiarazione presentata. La Suprema Corte ha infatti affermato che l'orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità afferma l'emendabilità, in via generale, di qualsiasi errore, di fatto o di diritto, contenuto in una dichiarazione resa dal contribuente all'amministrazione fiscale, anche se non direttamente rilevabile dalla stessa dichiarazione. Quest'ultima, infatti, non si configura quale atto negoziale e dispositivo, ma si tratta di una mera esternazione di scienza o di giudizio, modificabile in ragione dell'acquisizione di nuovi elementi di conoscenza e di valutazione sui dati riferiti. Costituisce, così, un momento dell'iter procedimentale volto all'accartamento dell'obbligazione tributaria. Il termine annuale previsto dalla norma sopra citata, è finalizzato all'utilizzo in compensazione del credito eventualmente utilizzato e non interferisce sul termine di decadenza di 48 mesi previsto per l'istanza di rimborso. In ogni caso, poi, non esplica alcun effetto sul processo tributario instaurato dal contribuente per contestare la pretesa fiscale, poichè anche in virtù dei principi di capacità contributiva (art. 53 Costituzione), non può estendersi un'eventuale decadenza amministrativa del processo tributario. Infatti, sebbene ci si opponga a una pretesa fondata su dati (errati) forniti dal contribuente, l'oggetto del contenzioso non è la "dichiarazione integrativa" ma la fondatezza della pretesa tributaia alla luce degli elementi prodottti dalla parti. Pertanto, va riconosciuta al contribuente, in sede contenziosa, di opporsi alla maggior pretesa, allegando errori di fatto o di diritto, commessi nella determinazione dell'imposta dovuta.
    AVV. GIUSEPPE CAPONE
      
    Mercoledì, 07 Novembre 2018 07:39

    AVVISO DI ACCERTAMENTO NULLO SENZA DELEGA

    L'accertamento fiscale è nullo se l'Amministrazione non prova di avere validamente delegato il funzionario che ha firmato l'atto. Deve essere l'ufficio a provare che il funzionario che ha sottoscritto l'atto era legittimamente delegato. Gli accertamenti sono nulli se non sono sottoscritti dal capo dell'ufficio emittente o da un impiegato della carriera direttiva validamente delegato. La sottoscrizione da parte di un funzionario diverso da quello istituzionalmente competente a sottoscriverlo ovvero da parte di un soggetto privo di delega valida, non sodisfa il requisiito espressamente richiesto, a pena di nullità, dalla norma (art. 42 DPR 600/73).
    La nullità legata ai vizi di sottoscrizione riguarda gli avvisi emessi sia ai fini delle imposte dirette sia ai fini Iva, in conseguenza del diretto rimando contenuta nel DPR n.633/72. Diversa situazione, infatti, attiene alla cartella esattoriale, al diniego di condono, all'avviso di mora o attribuzione di rendita, poichè in assenza di una sanzione di nullità espressamente prevista per legge, opera la presunzione generale di riferibilità dell'atto all'organo amministrativo che ha emesso il provvedimento. Ne consegue che nell'ipotesi in cui sia contestata l'esistenza di uno specifico atto di delega da parte del capo dell'ufficio e/o l'appartenenza dell'impiegato delegato alla carriera direttiva, incombe all'Amministrazione dimostrare il corretto esercizio del potere sostitutivo e l'assenza di vizi al riguardo. Si discute, infatti, di circostanze che coinvolgono direttamente l'Amministrazione che detiene la relativa documentazione e pertanto sarebbe difficile (o forse impossibile) per il contribuente potervi accedere autonomamente ed inoltre, il giudice nemmeno potrebbe attivare poteri istruttori. Tuttavia, è ormai pacifico che nel caso in cui il contribuente contesti il difetto di poteri del firmatario, l'amministrazione finanziaria deve dimostrare che il sottoscrittore era il capo dell'ufficio in persona oppure (circostanza assai più ricorrente) altro soggetto comunque appartenente alla carriera direttiva (quindi funzionario della terza area), delegato dal capo dell'ufficio. Ma in tale caso, il fisco deve anche produrre agli atti la delega che deve necessariamente essere: scritta, motivata, riferita ad un preciso soggetto, indicato per nome e cognome, riferita ad un preciso ambito temporale entro cui la delega è valida (la delega generica senza limiti di tempo non è valida). Insomma le deleghe in bianco non sono legittime.
    AVV. GIUSEPPE CAPONE
    L'art. 10 quater del decreto legislativo 74/2000 prevede che sia punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione ai sensi dell'art. 17 dlgs. 241/97, crediti non spettanti per un importo superiore a 50.000 euro annui, e con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni per chi non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione ex art. 17 dlgs 241/97, crediti inesistenti per un importo annuo superiore ai 50.000 euro.
    Prendendo spunto dalla norma in esame, analizziamo oggi il caso pratico di un soggetto che si è visto imputato della violazione di detta norma, avendo lo stesso operato, secondo la prospettazione accusatoria, una indebita compensazione di ritenute previdenziali. Il decreto legislativo 74/2000 è intitolato "Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto a norma dell'art. 9 della legge n.205 del 25 giugno 1999". Dunque, evodentemente, le fattispecie delittuose di tale testo dovrebbero riferirsi solo alle violazioni in tema di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e non anche a quelle relative al versamento delle ritenute previdenziali. Tutavia contro tale argomento la Cassazione valorizza il dato letterale dello stesso articolo 10 quater. E pertanto, osserva la Corte, che la lettera dell'articolo 10 quater identifica nel dettaglio, in ossequio al principio di tassatività della norma penale, le compensazioni che possono essere oggetto della stessa fattispecie incriminatrice, operando un rinvio recettizio al dettato dell'articolo 17 del decreto legislatico n.241 del 1997. Orbene, osserva la Corte, proprio il testo dell'articolo 17 delgs n.241/1997, richiamato espressamente con rinvio "recettizio e conchiuso" dalla norma incriminatrice, consente la compensazione anche dei crediti relativi ai contributi previdenziali e si riferisce agli importi non versati con l'espressione "somme dovute", senza dunque, volutamente, fare riferimento al termine "imposte", proprio in conseguenza della tipologia ampia ed eterogenea dei crediti che possono essere oggetto di compensazione. 
    In merito poi all'idenditificazione della fattispecie incriminatrice, nessun dubbio nutre la Corte sulla specifica appartennza del caso in esame alla indebita compensazione e non alla truffa, visto l'apparente concorso di norme e la prevalenza del carattere speciale della norma tributaria ex art. 10 quater sulla norma ordinaria.
    Si rileva, a parere di chi scrive, anche con il caso esaminato, come sia venuta a svilupparsi una interpretazione ampia del reato tributario, dovendosi ricomprendere nello stesso non solo i beni appresi per effetto immediato e diretto dell'illecito, ma anche ogni altra utilità che sia conseguenza, anche indiretta e mediata, dell'attività criminosa. 
    AVV. GIUSEPPE CAPONE 
     
     
    La santoria dei micro-crediti esattoriali non si applicherà solo alle cartelle fino a mille euro, ma coinvolgerà anche quelle di importo superiore. E ciò in conseguenza dell'interpretazione letterale del decreto fiscale appena approvato dal Governo. Il testo della norma (art. 4 D.L. 119/2018), infatti, non parla di cancellazione delle cartelle di pagamento ma dei "carichi affidati agli agenti della riscossione" o, che dir si voglia, degli importi iscritti a ruolo. Cerchiamo di capire meglio con un esempio. Immaginiamo il sig. Mario Rossi che, per tre anni consecutivi, non ha pagato il bollo auto. L'importo singolo da versare era di 500 euro; la somma degli arretrati è quindi pari a 1.500 euro cui si aggiungono le sanzioni e gli interessi. L'Ente impositore ha puntualmente inviato le diffide per interrompere la prescrizione e, di anno in anno, ha iscritto a ruolo gli arretrati formando tre ruoli distinti e incaricato l'esattore di procedere al recupero coattivo. L'agente della riscossione, come spesso succede, anzichè inviare una cartella per ogni singolo ruolo, ha preferito formare un'unica cartella che racchiude i ruoli delle tre annualità arretrate. In questo modo Mario Rossi ha ricevuto una cartella di oltre 1.500 euro. Ebbene, il debito non va pagato. E questo perchè il singolo ruolo è inferiore a 1.000 euro anche se la successiva cartella, onnicomprensiva, supera tale tetto.
    AVV. GIUSEPPE CAPONE 

     

    La santoria dei micro-crediti esattoriali non si applicherà solo alle cartelle fino a mille euro, ma coinvolgerà anche quelle di importo superiore. E ciò in conseguenza dell'interpretazione letterale del decreto fiscale appena approvato dal Governo. Il testo della norma (art. 4 D.L. 119/2018), infatti, non parla di cancellazione delle cartelle di pagamento ma dei "carichi affidati agli agenti della riscossione" o, che dir si voglia, degli importi iscritti a ruolo. Cerchiamo di capire meglio con un esempio. Immaginiamo il sig. Mario Rossi che, per tre anni consecutivi, non ha pagato il bollo auto. L'importo singolo da versare era di 500 euro; la somma degli arretrati è quindi pari a 1.500 euro cui si aggiungono le sanzioni e gli interessi. L'Ente impositore ha puntualmente inviato le diffide per interrompere la prescrizione e, di anno in anno, ha iscritto a ruolo gli arretrati formando tre ruoli distinti e incaricato l'esattore di procedere al recupero coattivo. L'agente della riscossione, come spesso succede, anzichè inviare una cartella per ogni singolo ruolo, ha preferito formare un'unica cartella che racchiude i ruoli delle tre annualità arretrate. In questo modo Mario Rossi ha ricevuto una cartella di oltre 1.500 euro. Ebbene, il debito non va pagato. E questo perchè il singolo ruolo è inferiore a 1.000 euro anche se la successiva cartella, onnicomprensiva, supera tale tetto.
    AVV. GIUSEPPE CAPONE 

     

    La pace fiscale, che contiene la santoria delle mini cartelle fino a mille euro, si applica anche a chi ha una rateazione in corso e il debito residuo è inferiore a tale tetto. Per capire quale beneficio potrà avere il contribuente che già stava pagando il debito con l'agente della riscossione facciamo un esempio. 
    Immaginiamo che una persona, qualche anno fa, abbia ricevuto una cartella esattoriale da 5 mila euro per IMU non versata. Per evitare un pignoramento, il debitore presenta allo sportello dell'esattore una istanza di dilazione del debito in 72 rate. L'agente della riscossione, dopo avere approvato la richiesta, gli consegna il piano di ammortamento che il controbuente inizia da admpiere regolarmente. Al 31 dicembre 2018 il residuo da pagare è di 990 euro. Ebbene, questo importo ricade nel condono governativo. Dunque, anche in caso di rateizzazione delle cartelle c'è lo stop al pagamento grazie alla pace fiscale. Il decreto fiscale fa riferimento ai "singoli carichi" affidati all'agente della riscossione dal 2000 al 31 dicembre 2010, quindi riguarda anche le cartelle di pagamento ricevute nel 2011, ma riferite a ruoli formati l'anno prima. 
    Ricordiamo che l'annullamento delle mini-cartelle opera per i debiti 2000-2010 ancora iscritti a ruolo al 24 ottobre 2018, e avverrà, senza alcuna richiesta del debitore, al 31 dicembre. Se in questo tempo il debitore paga, perchè magari ha in corso una rateazione, il versamento è imputato a copertura di eventuali altri debiti. In assenza, sarà rimborsato con oneri a carico dell'Ente creditore. Le somme pagate prima del 24 ottobre restano acquisite dall'ente creditore. 
    AVV. GIUSEPPE CAPONE 
    Giovedì, 01 Novembre 2018 09:24

    PACE FISCALE IN 4 PUNTI

    Ancora incerta la strada che condurrà alla ormai nota pace fiscale. Sembrano essersi comunque delineate le linee principali della sua forma definitiva. Il Sole 24 ore nei giorni scorsi ha focalizzato l'attenzione sui 4 punti principali che ruotano attorno alla pace fiscale. Quattro nodi da sciogliere per arrivare a una migliore definizione della pace con il fisco italiano. E pertanto: 1) Tetto delle somme riscattabili attraverso la sanatoria; 2) il contenzioso tributario, ossia la possibilità di includere nella pace fiscale le liti pendenti con il fisco; 3) la rottamazione delle cartelle in relazione alla pace fiscale; 4) debiti IVA. Tutto ciò senza dimenticare l'ammontare delle aliquote e, in una prospettiva più larga, i soggetti che potranno beneficiare della misura e quelli esclusi. Ancora incertezza sulle aliquote. La voce più ricorrente riguarda l'applicabilità di tre aliquote al 6%, 15% e 25%. Ma non è ancora chiaro come queste saranno ripartite in base ai vari scaglioni. Perchè le somme da abbuonare avranno un tetto, che non sarà di 100 mila euro come originariamente previsto. Altro problema da sciogliere è il contenzioso con il fisco. Probabilmente solo chia avrà la possibilità di vittoria potrà attendere la definizione della pace fiscale. Tuttavia c'è incertezza su come tenere separate le liti fiscali in relazione ai diversi plafond. L'alternativa? Bolocco unitario. La pace fiscale, poi, può essere considerata una maxi estensione del piano di rottamazione delle cartelle esattoriali. L'interrogativo iniziale riguarda l'inclusione o esclusione di tutti quei contribuenti che hanno aderito alla rottamazione. Chi non ha aderito ad alcun piano di rateizzazione, dovrebbe entrare nella misura. Praticamente certa, poi, l'esclusione dei debiti IVA, così come quella delle pendenze contributive. Di contro, non è ancora chiaro se all'interno della pace fiscale possano rientrare imposte comunali, come ad esempio TARI e IMU.
    AVV. GIUSEPPE CAPONE 
    Se la procedura fallimentare è già stata avviata, non è necessario che venga notificato un ulteriore ricorso proposto da un secondo creditore richiedente il fallimento. Questo perchè il ricorso proposto da un secondo creditore non fa venire meno il diritto di difesa, quando il procedimento prefallimentare è già in corso. L'imprenditore poi, anche se ha cessato l'attività d'impresa, non può invocara la capienza del patrimonio personale per sottrarsi al fallimento: non gli si applica il regime estintivo delle società in quanto la cesazione della qualità di imprenditore individuale non è formale ma è sostanziale e anche nell'accertamento dell'insolvenza non valgono le regole delle società in liquidazione. 
    Non si applica il regime estintivo previsto dall'articolo 2495 del codice civile per le società in quanto l'imprenditore individuale non è diverso rispetto alla persona fisica che svolge l'attività imprenditoriale. Infatti la conclusione della sua qualità di imprenditore non è mai legata all'espletamento di particolari formalità e questo differente regime estintivo vale anche per l'accertamento dello stato di insolvenza. Diversamente dalle società in liquidazione, non può bastare neppure la disponibilità di un patrimonio immobiliare sufficiente a pagare tutti i debiti dell'impresa, essendo sufficiente per la pronuncia del fallimento, uno stato di impotenza funzionale non transitoria a soddisfare le obbligazioni inerenti alla stessa impresa.
    AVV. GIUSEPPE CAPONE 
     
    La perdita dei crediti non incassati non può essere deducbile in assenza di elementi di certezza della irrealizzabilità del credito, ed i costi non dedotti in un precedente periodo di imposta non posso essere portati in detrazione nel periodo di imposta successivo in conseguenza dell'emissione della fattura da parte del fornitore nell'anno successivo al perido di imposta in cui è stata resa la prestazione. 
    Questo principio espresso dalla giurisprudenza uniforme della Cassazione è stato ulteriormente ribadito recentemente con una sentenza di marzo 2018 da cui possono trarsi le seguenti conclusioni.
    Le perdite su crediti devono essere certe e tali da far ritenere che il credito sia in tutto o in parte non recuperabile per insolvenza parziale o totale del debitore. Tali fattispecie possono essere: 1) A
  • tto di rinuncia unilaterale del creditore con il quale si procede alla remissione titale o parziale del debito con lettera (art. 1236 c.c.) semrpe che non risponda ovviamente ad una scelta di convenienza economica operata dall'azienda e che sia delibarata dagli orgsani societari; 2) Credito di modesto importo; 3) Prescrizione del diritto di credito dipendente dalla natura; 4) Accordo transattivo tra le parti con il quale si addiviene ad una risoluzione e riduzione del debito originario del debitore insolvente; 5) Cessione del credito con la clausola pro soluto, in tal caso per i credit non ancora scaduti, la perdita è configurabile solo se il prezzo di cessione è inferiore al valore attualizzato dei crediti ceduti, al netto degli interessi impliciti non ancora maturati; 6) Crediti verso soggetti esteri garantiti Sace sono deducibili se c'è la dichiarazione del sinistro e dovrà contenere l'indicazione dell'indennizzo liquidato a titolo di risarcimento per la mancata riscossione del credito; 7) Crediti verso soggetti esteri senza garanzia Sace sempre che vi sia una dichiarazione di irrecuperabilità rilasciata dall'organo deputato al controllo contabile; 8) Procedure concorsuali: procedura che deve considerarsi aperta in capo al debitore e nel caso di fallimento, indipendentemente dall'insinuazione del creditore al passivo fallimentare. 
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